mercoledì 29 luglio 2009

Israele: il sacro e il profano

Avete voglia di leggere un aneddoto di un mio viaggio in autobus in Israele? Il bus che da Gerusalemme doveva portarmi a Tel Aviv era giallo, rumoroso e coperto di polvere, i passeggeri erano studenti, turisti, donne anziane vestite di nero che portavano borse e fagotti, un paio di rabbini vestiti di nero, chiusi, diffidenti, silenziosi. Sul sedile al mio fianco si era sistemata una ragazza vestita di un abito scuro e dimesso, un fazzoletto sul capo, una faccia seria che sbucava da sotto il fazzoletto, gli occhi nascosti dietro un paio di occhiali scuri. Un mio tentativo di conversazione non era andato in porto quindi restammo in silenzio. Mentre ci lasciavamo alle spalle i paesaggi austeri, claustrali, fatti di pietra bianca e di vegetazione smorta, della città dei due popoli, delle tre religioni monolitiche e del turismo sepolcrale, mi venne da pensare che l’austerità di quei luoghi si rifletteva in fondo nella figura di quella giovane donna taciturna. Dopo un certo tempo il paesaggio cambiò, grandi bandiere con la stella di Davide sfilavano come ad una parata allineate lungo l’autostrada, a tratti si dibattevano al vento che soffiava da settentrione. Il sole era già alto sull’orizzonte, dall’aria si sentiva la vicinanza del mare. Ed ecco che nel contegno della ragazza seduta al mio fianco si produsse un cambiamento. Con un gesto deciso si sfilò il foulard scuro e liberò una bella cascata di capelli biondi, con un altro movimento di scatto si tolse gli occhiali, poi si voltò verso di me e fece un mezzo sorriso. Passò altro tempo, Tel Aviv non era lontana. La giovane si tolse con agio il soprabito scuro che pareva un pastrano come quelli che le donne turche indossano abbottonati fino al collo quando escono a fare la spesa, e apparve vestita di un pulloverino rosa sbracciato con orli bianchi ricamati sulle maniche ed una gloriosa scollatura sul davanti che mi fece galleggiare il cuore in petto. Avevo provato un'emozione simile giorni addietro, quando mi bagnai nel Mar Morto e rimasi a galleggiare supino sulla superficie dell'acqua come un coccodrillo rovesciato. Ora la ragazza tornò a sorridermi, poi finalmente una conversazione cominciò. Argomento: la dieta kosher! Una volta giunti alla stazione degli autobus di Tel Aviv ci salutammo e la guardai allontanarsi sulla banchina. Nella seconda capitale, secolare, tecnologica ed edonista, della nazione d’Israele, lo scenario umano era molto diverso da quello della millenaria, monastica, severa Gerusalemme. La giovane sconosciuta, ora completamente metamorfosata, sembrava pronta per essere scodellata sulla passeggiata del lungomare festaiolo di Tel Aviv, dove a una certa ora, al calare della notte e all’accendersi di luminarie che volevano imitare quelle di Las Vegas, in mezzo a una folla senza pensieri grevi, immagino si sarebbe infilata in una delle tante discoteche-techno del posto, per ballare con gli amici fino alle due del mattino.

martedì 16 dicembre 2008

Marocco del sud

Nel maggio 2007 ebbi l’occasione di visitare i territori dell’ex Sahara spagnolo, quelli che per intenderci costituivano una colonia della Spagna fino al 1976 (a proposito, il film Guerre stellari è del 1975, nella luna c’erano andati già 7 anni prima, ma nel 1976 la Spagna ancora aveva una colonia. Gusto retrò? no, piuttosto l’interesse rappresentato da inestimabili giacimenti di fosfati, il cui sfruttamento avrebbe fornito al nuovo stato indipendente del Sahara la valuta necessaria per decollare. Quando la Spagna concesse l’indipendenza al paese, il Marocco e la Mauritania si spartirono e si annessero la ex colonia. Le popolazioni autoctone, i ‘Sarahui’ al posto dell’indipendenza dagli spagnoli si videro arrivare in casa marocchini e mauritani. Come spesso succede nelle politiche fantasiose, cambiano i suonatori ma la musica rimane la stessa. I Sarahui in parte rimasero sul territorio, altri crearono basi di guerriglia oltre il confine algerino intorno alla città di Tindouf, altri ancora si misero a tentare la
traversata del tratto di mare che li separava dalle Canarie. Da allora le isole spagnole sono diventate altrettante Lampeduse nell’Atlantico. Lo scenario è simile, solo che da noi gli scafisti libici sono ben organizzati, mentre dalle coste saharui partono imbarcazioni malconce. L’isola più vicina è Lanzarote, ma molte ‘pateras’ arrivano anche a Tenerife. Tenerife! L’isola magica degli
aborigeni Guanches, dove il naturalista Humboldt che vi fece sosta nel suo viaggio verso il Sudamerica rimase ammaliato dalla bellezza della vallata a nord, per intenderci quella che si stende giù fino alla costa dopo avere superato il picco del Teide. Humboldt disse di non aver mai visto nulla di più bello. Ora Tenerife è un ghetto turistico, Los Cristianos a sud una colata di cemento Portland senza interruzione, i tinerfegni sono stufi di questo tipo di sviluppo e non amano lo straniero. Nel corso del mio viaggio in terra ex-Sarahui visitai Tarfaya, cittadina costiera nel punto più occidentale
del territorio e a poche miglia marine da Fuerteventura. E’ da questa località che partivano e partono molte delle imbarcazioni d’emigranti. A questo punto mi viene da pensare: il Sarahui che riesce ad approdare alle Canarie, in quanto ex suddito di sua maestà di Spagna, non avrebbe diritto di diventare automaticamente cittadino spagnolo? invece le procedure di accoglienza sono tutte in salsa Lampedusa. I profughi che sbarcano vengono rifocillati, sottoposti a cure mediche e poi o rispediti al mittente o lasciati sul territorio spagnolo come esuli o clandestini tollerati. Di cittadinanza non se ne parla. Visitai anche Dakhla, la vecchia Villa Cisneros, insediamento nell’estremo sud a un passo dal confine mauritano. Per arrivarci si percorre una pista asfaltata, che s’infila tra un deserto giallo ocra da una parte e l’oceano atlantico dall’altra. La costa è a falesia color ocra-giallo smunto ed è a picco sul mare. A tratti si aprono distese di spiagge sabbiose che non vogliono finire mai.L’oceano è sempre grigio e le onde sono furiose, il vento che soffia in permanenza forma frangenti che sembrano una carica di cavalleria. Ci sono tratti lunghissimi di nulla fatto di deserto e oceano, poi
all'improvviso ai bordi della strada si materializzano costruzioni in cemento con un piccolo patio, un recinto di capre, dei cammelli che ruminano chissà cosa. Sono le 'gargotes' che vendono pesce fritto appena pescato e carne di capra alla griglia. Dopo il pasto si riparte, di ritorno sul nastro di asfalto si ha l'impressione di essere catapultati in avanti come costretti dal nulla di oceano e deserto che stringe ai fianchi. Ecco infine Dakhla, l'ultima oasi prima della Mauritania!!!

Haiti

Mi trovavo nel sud di Hispaniola, nella regione di Pedernales, città prossima al confine con Haiti. Un ufficiale dominicano mi invitò ad una breve visita oltre frontiera, della durata di poche ore, senza passare dogana o mostrare passaporto. Insomma una infiltrazione in territorio straniero da semi-illegale! La proposta suonava molto 'il nostro agente all'Havana' e mi attirava. Lasciata l'auto in custodia sicura (i posteggiatori non mancavano) passammo a piedi la frontiera in una zona lontana dalla dogana, dove non c'era nemmeno un filo spinato, ma solo siepi di cacti spinosi! Dopo alcune
centinaia di metri entrammo in un altro mondo. La terra era di laterite rossa come in Gabon, le acacie basse erano quelle del Serengeti, le prime capanne che comparivano non erano più casette coloniali spagnole, ma assomigliavano a dei kraal zulu. Non eravamo più in una ex colonia spagnola, eravamo in Africa! Quel punto di transito di frontiera era un pertugio segreto, io ero diventato un Alice di nuovo genere e quello che stavo per visitare era un paese della meraviglia. Mentre la nostra visita proseguiva e ci addentravamo nel primo villaggio haitiano che io avessi mai visto, la mia meraviglia si trasformò presto in costernazione al vedere le condizioni misere in cui vivono gli haitiani. Il villaggio si chiamava
Anse-à-Pitre, nome che i dominicani dall'altra parte del confine
deformavano in 'Sapito' = `Ranocchio'. Ad un certo punto l'ufficiale
dominicano che mi aveva invitato a questa strampalata escursione si
rivelò per quello che era in realtà, cioè per un faccendiere in trasferta.
Questa persona altri non era infatti che un mediatore di lavoranti haitiani,
un caporale incaricato di contattare il suo omonimo haitiano, capo-villaggio o padrino locale, per concordare quanti manovali o agricoltori sottopagati potessero esfiltrare oltre confine alla prossima bisogna. In un magazzino polveroso del villaggio vidi pile di sacchi bianchi accatastati. Era riso donato dagli Usa ad Haiti, sacchi di iuta bianchi con sopra la stampigliatura azzurra 'donazione USA'. Era riso pregiato americano che anziché essere distribuito alla popolazione veniva venduto oltre confine per ricavarne pesos dominicani. Sulla via del ritorno cercavo di convincermi di non essere stato coinvolto a mia insaputa in una schifosa operazione di mercificazione di esseri umani, ma soltanto di esserne stato sfiorato.

sabato 13 dicembre 2008

Israele

Il 28 settembre 2000 in Israele il premier Ariel Sharon ebbe l´idea stravagante di fare una passeggiata sulla spianata delle moschee, nella città
vecchia di Gerusalemme. Questa zona è sacra per ebrei e musulmani, questi
ultimi si sentirono provocati dal gesto di Sharon e cominciarono a protestare. In quello stesso giorno mi trovavo a Tel Aviv, il mio soggiorno nel paese volgeva al termine e c'era un aereo che non avevo nessuna voglia di prendere. Non volevo lasciare quei luoghi troppo in fretta, quindi decisi di passare via terra al Cairo e d´imbarcarmi da lì. Il giorno dopo alla frontiera di Eilat notai molti turisti israeliani che dal Sinai rientravano a casa. Era un
affollamento inconsueto e aveva l´aria di un rientro precipitoso da chissà
cosa. Nel bar della dogana conversavo con un ufficiale israeliano, che
all´inizio parlò di questo e di quello, poi accennò a quello che succedeva
da questa e da quella parte del confine, e alla fine mi raccontò senza mezzi termini ciò che temeva sarebbe accaduto nei giorni seguenti. Fu un discorso un po´ strano e non gli diedi molta importanza. Passai il confine e me ne andai. Quel giorno era l´inizio della seconda intifada, che nei 4 anni successivi si espresse contabilmente con 3300 palestinesi e 900 israeliani morti ammazzati. Una `nakba´, catastrofe, in piena regola.

Cameroun

Anni fa ero ecologo e appassionato difensore delle foreste tropicali. Amavo gli alberi e detestavo le compagnie del legname, per intenderci quelle che devastano ampie zone ad es. del bacino del Congo. Simpatizzavo per i verdi ultrà californiani, quelli che si fanno incatenare agli alberi, che inseriscono nei tronchi cunei metallici che fanno saltare la catena delle motoseghe, oppure si costruiscono una casetta sulla cima di alberi secolari, sperando che così i boscaioli non abbattano l’albero. Simpatizzavo anche per gli
ecologi australiani, quelli che si sdraiano sulle strade di collegamento da Darwin a Brisbane e sperano di bloccare i tir del legname. Rimuginavo sulla utopia e la teoria di legalizzare guerre fra stati il cui unico movente fosse la
difesa dei patrimoni forestali e non solo petrolio o diamanti. Avevo smesso di essere umanista per diventare naturalista, perché a mio vedere l’uomo non era che la muffa della terra che insidiava la grande, imponente, maestosa foresta tropicale africana. Questa per me rappresentava l’ultima e la più intensa fonte di emozioni che l'Africa, a parte le emozioni sahariane, può dispensare, e se c'è un continente sulla terra che regala le emozioni più forti, questo è l’Africa. All'inizio degli anni 90 mi trovavo in Cameroun, impiegato presso un'azienda italiana. Quando mi toccarono le ferie, presi l'auto aziendale più malandata che c'era e partii da Douala, sul golfo di Guinea, diretto verso la foresta pluviale del sud, quella che continua nel Congo Brazzaville e che geograficamente fa tutt’uno con il grande bacino verde del Congo/Kinshasa, che allora si chiamava ancora Zaire. Da Douala a Edéa il tragitto era su asfalto, costeggiato già da foresta secondaria. Poi toccai Yaoundé ma senza entrare in città, passai Bertoua, Batouri, Ndélélé. Poi l’asfalto terminò e cominciò una pista di laterite rossa che si addentrava in una foresta secondaria sempre più fitta che lasciava indovinare la
presenza imminente della foresta primaria. Durante una sosta in un villaggio feci conoscenza con due cooperanti francesi che m’invitarono a restare un giorno da loro. L’indomani era domenica, io volevo ripartire, ma una delle cooperanti mi chiese: ‘Tu veux pleurer?/vuoi piangere?’, una maliziosa anticipazione tutta francese che poi mi feci spiegare e che voleva dire: oggi è domenica, vieni con noi alla messa della chiesa cattolica, c’è la
messa cantata, e se non la conosci avrai una sorpresa. Andammo alla Messa, c’era un coro di donne e fanciulli, c’era un armonium e c’erano strumenti a percussione tipici del luogo. Il canto delle donne si levò per primo nella volta disadorna di quella bianca, spoglia chiesa cristiana, al canto si unì il suono dell’armonium, e quando il cuore già batteva forte si aggiunsero
i ritmi delle percussioni! La cooperante francese aveva ragione, quel groppo alla gola che non sapevo spiegare e quelle onde d'emozione che sempre più forti volevano straripare dagli occhi...! Ripartii sulla pista di laterite, che pareva una lunga ferita rossa nella foresta. Nel day-dreaming del viaggio interminabile sulla pista sognavo di essere un oggetto che affonda a sud per forza di gravità. Ero come un essere che ritorna nella placenta del continente africano da cui aveva avuto origine. E poi quei pensieri sulla foresta che ora si ergeva scura e densa ai bordi della pista! Arrivai a Yokadouma, ultimo avamposto del Cameroun prima del confine con il Congo Brazzaville. Feci conoscenza con Daboud, un libanese che gestiva una segheria del posto (grrr). Daboud mi invitò alla sua casa, mangiammo e bevemmo, e quella sera mi chiese e richiese di restare con lui qualche giorno. Daboud viveva solo in quella casa, ma aveva una piccola legione di lavoranti, un’altra piccola schiera di inservienti, cuoco, guardiano, autista etc, nonché un’amante che dal villaggio veniva a trovarlo una volta alla settimana (!). Daboud aveva il pallino per gli italiani, adorava le auto e la
moda italiane e gli piaceva la lingua italiana. Progettava di lavorare ancora qualche anno a Youkadouma, poi prendere i CFA guadagnati e di andare in Italia, comprare un’automobile italiana, tornare in Libano al volante di spider tutta lustra, sposarsi e non tornare mai più in Africa. Daboud però non era mai stato in Italia, e voleva sapere da me com’era il mio paese che lui amava tanto senza averlo mai visto. Io gli dissi che ero venuto fin lì per conoscere la foresta, per vivere nella foresta, per non avere altri occhi
e altre orecchie se non per la grande foresta pluviale del Cameroun. Le nostre divesità di vedute erano solo apparenti, perché la nostra conversazione procedeva fitta e inesauribile anche con il passare dei giorni. Dei giorni e delle notti. Daboud era un gaudente, un viveur, ed io da parte mia non faticavo molto a stargli dietro. C’erano le festicciole in casa, con fritture miste, birra (la solita guinness scura) e whisky che ci piaceva bere ‘dur’, per dimostrare a noi stessi di essere i duri della foresta di Yokadouma. La musica era il Makossa del Cameroun e il congorumba dello Zaire. Nelle festicciole in casa e nella locale discoteca altro non si ascoltava che Petit Pays, M'Bilia Bel, Tabu Ley, Sam Mangwana, Oliver N'Goma,
Franco, Bopol, Monique Séka, Touré Kunda e Fela Kuti. Eravamo i soli due bianchi nel raggio di chissà quanti km, e soprattutto! eravamo circondati dai simpatici neri del Cameroun, gentili, umoristici, musicali, esilaranti. Questa è l’Africa più intensa che mai si possa sperimentare.

Giava

Durante una visita in Indonesia, percorrevo in autobus il tratto Jakarta – Bandung (Giava). Il mezzo era sovraccarico di passeggeri con bagagli, il tragitto era lungo e faticoso, il caldo male sopportabile. Fu così che quando cominciò un tentativo di conversazione tra me ed una giovane donna indonesiana seduta accanto mi sentii sollevato. Peccato che la ragazza conoscesse solo 5 parole d'inglese, fra cui la parola ‘delicious’, che ripeteva spesso. Io allora controbattevo con la parola 'jalan-jalan', termine jolly e furbesco che va bene in molte situazioni. Il bahasa indonesian è un lingua povera, e un termine può voler dire molte cose. E' anche una lingua molto semplice, ad esempio: orang è uomo, orang-orang è il plurale uomini. Ora, 'jalan-jalan' si usa per indicare 'viaggiare, camminare, passeggiare, svagarsi, andare a zonzo, essere in libera uscita...' Quando la ragazza mi sentì pronunciare la parola-jolly, la conversazione subì un'accelerata, e così continuammo a base di 'delicious jalan-jalan'. Io pensavo che era strano che una donna sola in un paese musulmano fosse incline a conversare con un uomo venuto da chissà dove. Ma tant’è, il bus era pieno di gente…La giovane donna mi fece capire che sarebbe stata lieta di farmi da guida (gulp) nella zona di Bandung dove lei abitava ed io accettai. Scendemmo alla stazione bus di Bandung e cominciammo quella strana escursione. La ragazza come ho detto parlava poco o niente, così indicava spesso con il dito cose da vedere e comunque mi sorrideva spesso. Così spesso che ad un certo punto mi domandai quali altre accezioni e significati a me sconosciuti poteva avere l'espressione 'jalan-jalan' nel bahasa indonesian così povero di vocaboli. Il fatto è che a pronunciare quella frase era donna indonesiana giovane, dagli occhi che ridevano e dai capelli nerissimi, e proprio questa creatura mi aveva fatto un invito inaspettato. Scacciai i pensieri strani e mi dissi che la mia accompagnatrice era una normalissima ragazza di buona famiglia che si era offerta solo per una forma di curiosità per il turista di mostrarmi Bandung, dove sia detto per inciso non c’è niente da vedere. Calava la sera, io dissi alla donna che ero incantato della sua cortesia, che mi spiaceva molto di lasciarla ma che dovevo andare all’hotel indicato dalla guida Lonely Planet. Nessun termine come quelle due parole ‘lonely’ e 'planet’ avrebbero saputo meglio definire il mio stato d’animo nel congedarmi da quell’anima gentile. Ed ecco che la donna si attivò in una serie di gesticolazioni che volevano dire: la mia casa è qui vicina, se vuoi te la mostro e ti presento papà e mamma, più fratello. Dei e numi dell'universo, cateratte del cielo, apritevi. Velocemente cercai di capire se fosse accettabile il quadretto con dentro me ormai maturo, sposato con la giovane donna sempre affascinante, che ormai aveva imparato a dire ’delicious’ in italiano, circondati da 9 tra bambini/e fanciulli/i, con suoceri sullo sfondo. No, non si poteva. Nonostante questo accettai l’invito e andammo alla sua casa. Questa era un parallelepipedo di cemento con poche finestre e con una porta ammuffita dall'umidità. L'interno era scuro, triste e umido. Genitori e fratello non c'erano. Io non sapevo cosa fare e aspettavo. Alla fine arrivò il padre, aveva una fisionomia più cinese che indonesiana, si presentò e disse di essere un poliziotto. La conversazione non riusciva a decollare. La mamma non si vedeva ma poco male. Dopo un po’ il padre della ragazza mi disse che in Indonesia i comunisti sono malvisti e mi chiese se a me piacevano i comunisti. Io volevo raccogliere il mio zaino e andarmene. Dopo un altro po’ l’uomo mi chiese di mostrargli il mio passaporto. Io mi alzai deciso ad andarmene, ma in quel momento entrò il fratello, che mi invitò a restare ancora un poco. Il fratello della ragazza mi fece tante feste e complimenti, ma aveva un sorriso falso e dopo alcuni minuti mi chiese se viaggiavo con dollari cash o con assegni di viaggio. A quel punto mi alzai veramente, guardai negli occhi la ragazza,
ma non ci vidi più nulla, anche il suo sorriso era scomparso. Uscii dalla casa, raggiunsi la strada principale e fermai un taxi collettivo. La portiera si aprì e
dall'interno del taxi uscì il vociare potente di una conversazione...in lingua tedesca!!!! il taxi era occupato da tre turisti tedeschi diretti anche loro all'hotel consigliato dalla guida Lonely Planet. I tre ragazzi erano eccitatissimi e si parlavano addosso l’uno con l’altro, strappandosi continuamente di mano la copia di un quotidiano tedesco vecchio di alcuni giorni. Mi feci passare la copia, lessi i titoli e rimasi di sasso. Era il 1989 e pochi giorni prima il muro di Berlino era caduto.

martedì 9 dicembre 2008

Viaggiatori clandestini

Kartung, Gambia, 19 novembre 2008
mi trovo sulla veranda di un alloggio turistico affacciato sulla costa atlantica del Gambia, Africa Occidentale. La terrazza dell’alloggio ha pareti, pavimento e balaustra intonacate in calce bianca tirata a lucido. Verniciate di bianco sono anche le sedie e le tavole di metallo destinate agli ospiti dell'albergo. Su di un tavolino è posato un libro che mi propongo di leggere, e che in realtà non ho nemmeno aperto. Il bianco dell'intonaco lucido che ricopre costruzioni e arredi rende l’ambiente simile ad una enorme torta di gesso. Ho l’impressione di trovarmi in una scenografia alla Watteau del ‘Così fan tutte' di Mozart, senonché poi decido che la coreografia marina non ha nulla di mediterraneo. I frangenti vanno a morire su di una spiaggia grigia come ce ne sono tante in Africa Occidentale, grigi sono anche il mare e il cielo, come di consueto in queste zone dell'Africa. Appoggiato alla balaustra di gesso e guardando all’intorno vedo quindi solo tre colori, il verde cupo della boscaglia, il grigio della sabbia e l’altro grigio del mare. Il giorno è livido, nell’aria rimane sospeso il pulviscolo dell’harmattan, vento del deserto mauritano che soffia anche in questa stagione. Il sole è appeso sull’orizzonte e sembra sul punto di caderci sopra come un uovo marcio. In questa zona del Gambia meridionale la costa corre rettilinea verso nord per un lungo tratto, poi disegna un angolo retto verso l’oceano e termina in una striscia di terra sottile come la lingua di un rettile che lambisce l’acqua. Verso sud la spiaggia è priva di palme, coperta com’è solo da una arborescenza di verde chiaro che sembra voler raggiungere l’acqua. Ad un paio di chilometri lo sguardo indovina l’ansa descritta dal fiume Halahin che segna il confine con la regione della Casamance del Sénégal. Mi rendo conto che lasciando la capitale Banjul e scendendo tanto a sud fino a questo albergo sulla spiaggia, in realtà non ho fatto altro che arrivare ad un capolinea. Fine del viaggio. Se vorrò proseguire verso sud dovrò prima varcare una frontiera. Mi ritrovo a pensare che l’altra ragione più forte che mi impedisce di proseguire verso est è che da quella parte c'è l'oceano atlantico. In presenza di elementi tanto primordiali quali il vento, l’acqua e la sabbia, è piacevole pensare che anche i miei ragionamenti possano diventare arcaici e ingenui come quelli di un infante. Questo insediamento turistico ha il nome originario mandinka di 'Boboi', che poi è diventato ‘Boboi Beach Lodge’. Nonostante il nome ora evolutosi ad essere disneyano che ricorda un resort della Florida, questo luogo altro non è l'insieme di una dozzina di bungalow a pianta rotonda sormontati da tetti in frasche di palma, decenti riproduzioni turistiche delle dimore tipiche della etnia ‘diola’ del Gambia e della bassa Casamance. Ora sulla terrazza dove mi trovo un tale mi si avvicina, sorride di un sorriso da coccodrillo e domanda qual’è il mio nome. E' un giovane gambiano di forse venti anni, indossa una camicia verde variegata di altri colori vivaci, sulla nuca ha una treccia da rastafari, ai polsi porta braccialetti di metallo lucido. Segue una conversazione di cui riporto solo la parte del giovane, che è poi costituita per lo più da domande e tentativi imbonitori. ‘prima volta in Gambia?... tuttavia una guida come me può esserti utile ... posso almeno mostrarti il mio business... sono un uomo d’affari di provata moralità... se non hai moglie posso procurartene una...’ il giovane sembra deluso dalle mie risposte, promette che tornerà più tardi e si allontana. Per questo viaggio come di consueto sono partito da solo, ma ora mi sento accompagnato da un moltitudine di presenze che non sono persone ma immagini, suoni e parole. Sono i fantasmi dannati dei ricordi letterari che si sono infilati a mia insaputa nel mio bagaglio, ed ora ne escono come tanti spiriti folletti. Ora non mi libero dalla fantasia di essere
arrivato in questo luogo via mare, a bordo di un improbabile battello a vapore, sullo stesso battello che portò Charles Baudelaire verso questi tropici. Ora l'imbarcazione del poeta attracca ad un molo, i viaggiatori sbarcano e si dileguano nei villaggi e nella boscaglia dell’interno, ma il poeta resta a bordo. Appoggiato alla paratia del ponte egli osserva la corsa dei frangenti verso la spiaggia orlata di palme, si arrotola un altro dei suoi spinelli gonfio della mistura dell'oblio composta di fiori del male e ricomincia a fumare. Il vate della dimenticanza e dello spleen decide che non scenderà mai a terra, la realtà putrescente della costa guasterebbe senza rimedio il suo sogno tropicale. Cerco di scacciare il fantasma letterario di Baudelaire, guardo al mare e alla carica incessante dei frangenti verso la costa, a quell'inutile assalto dell’oceano che s'insabbia con monotona regolarità. Ed ecco che compare il piroscafo 'Admiral Bragueton', quello che trasportava Ferdinand Céline verso queste spiagge. In fuga dall’Europa devastata del primo dopoguerra, Céline sbarcò ad un porto di questi paraggi e sparì nella boscaglia, per continuare il suo strano viaggio al fondo della notte. Invece di guardare il mare ora cerco di ascoltarlo solamente. Le onde però ora sono un tuono cupo come una salva di cannone. Ed ecco che anche la visione cambia, il vascello ora è una pesante pinazza e a bordo c’è Marlowe, il personaggio-chiave di un paio di romanzi di Conrad. Nella sua navigazione lungo la costa dell’Africa Occidentale il battello di Marlowe incrocia una nave da guerra inglese ancorata ad un miglio dalla costa. La nave espone il suo fianco alla costa e spara bordate d’artiglieria verso un villaggio costiero presidiato da indigeni ribelli. Il commento di Conrad è: '...una nave che bombarda un continente...'.
Ma com'è fatto il Gambia? Questo paese ha una linea costiera di soli 70 chilometri ed uno stretto entroterra vermiforme che si insinua nel continente come il parassita nel corpo di un albero secolare. Questo lembo di terra è percorso da est ad ovest dal fiume Gambia, che attraversa all’inizio grandi distese di savane gialle, si riveste del grigio dei boschi di mangrovie e sfocia poi come controvoglia nell’Atlantico, con una differenza di altitudine tra sorgenti e foce di pochi metri. Troppo poco perchè le maree atlantiche non siano tentate di ricacciarne l’acqua dolce e di penetrare nel suo corso per oltre cento chilometri. L’idea di risalire il fiume Gambia su di una lancia a motore mi fa ripartire la fregola letteraria del personaggio Marlowe che risale il maestoso fiume Congo a bordo di una chiatta a vapore. Marlowe ha avuto l'incarico dalla sua compagnia coloniale di rintracciare l'agente Kurtz, le cui tracce si sono perse da qualche parte all'interno di una foresta dal cuore di tenebra. Faticoso e ossessivo è stato quel rimontare una corrente color terra cosparsa dei detriti vegetali rigettati dalla boscaglia. Ai lati del fiume si ergono le muraglie della foresta pluviale primaria, chiusa in se stessa e offesa da quella intrusione. Secondo Marlowe/Conrad, sulla mappa dell’Africa il fiume Congo disegna una serpe che tiene la coda nascosta nelle foreste dell’interno e le fauci spalancate nell'Atlantico. Non so proprio che cosa abbia il Congo in comune con il Gambia se non il fatto di essere entrambi fiumi oggetto di stravaganti ricerche di esploratori vittoriani e viaggi onirici di romanzieri del primo novecento. Riaprendo gli occhi sulla realtà di questo pomeriggio stralunato vedo che l’harmattan continua a lasciare sospeso nell'aria il suo pulviscolo sahariano e che il sole è moribondo ma non ne vuole sapere di tramontare. In Africa il tempo scorre
lento ma in modo irregolare. A volte gli istanti che compongono una giornata come questa sono troppo lenti, il tempo s’intasa e poi si ferma, l’Africa torna ad essere ciò che è sempre stata, uno stato d'animo ancorato alla preistoria.

Buba Jammeh

Kartung, Gambia, 19 novembre 2008
Nella iterazione ossessiva di deserto, savana e foresta, i soli tre stati fisici che l’Africa conosce, Alberto Moravia vede l’annullamento della categoria dello spazio africano, e di conseguenza anche di quella del suo tempo. Il viaggio africano diventa dunque per lo scrittore non solo la fine dello spazio, ma anche la fine del tempo, e quindi il ritorno alla preistoria. Per Moravia l’ipotesi non può che trovare conferma nella visione degli scenari alluvionali da tregenda pleistocenica di grande parte dell’Africa saheliana e delle savane. Ma ora, sulla terrazza del Boboi Lodge di Kartung, osservando un gecko che s'immobilizza davanti ad una mosca verde brillante per un minuto intero e poi se la ingolla in un lampo, penso alle accelerazioni impensabili di cui è capace il tempo in Africa. Il gecko ingoia la preda e poi annuisce e annuisce, e m'insegna che il tempo è comprimibile come una molla, che il tempo è una materia che qui ha poco valore e significato ma che l’animaletto riesce a modellare per il suo scopo, quello di nutrirsi. Ora osservo che il giardino del lodge, con i suoi arbusti fioriti, è habitat di grandi sciami di insetti, che a loro volta attirano i gecko e varie specie di lucertole giganti, oltre ad una varietà senza numero di uccelli.
Mentre sulla terrazza del lodge aspetto il calare del sole, fanno la loro apparizione altri personaggi, quello di Buba Jammeh e della sorella Amina Jammeh, figlia dello stesso padre e della stessa madre. Perché in Africa è necessaria questa precisazione? Perché ‘sorella’ o ‘fratello’ come termini unici sono indicazioni vaghe che si riferiscono alla sola grande famiglia estesa africana, che può comprendere anche decine di persone o anche un intero clan. Buba è un giovane mandinka di 24 anni, ha lunghe braccia e gambe, ha pelle liscia, lucida e glabra. Noto che Buba soffre di uno strabismo che non esito a definire di Venere se penso a quanto di femmineo e di nobile c’è nel corpo e nel portamento di Buba. Da dove viene tutta la nobiltà dei suoi gesti e del suo parlare? Per ora Buba mi informa che lavora in questo albergo come contabile, un lavoro umile e mal pagato. In seguito verrò a sapere che solo Buba è in grado di capire ciò che va o che non va bene nella gestione dell’albergo. Se qualche conto non torna, Buba ne sa la ragione. Il giovane Buba non è solo contabile, ma capisce le cose della tecnica e dell’amministrazione, a Buba si rivolge la gente quando un macchinario ha un guasto. Se un turista europeo è contento o scontento, solo Buba ne conosce il vero motivo, perchè Buba vede nella mente dei 'toubab', degli ospiti europei che pernottano al lodge. Buba è una persona gradita e ricercata da tutti, ed è quindi l'anima del posto, eppure il giovane occupa solo una posizione subalterna e mal retribuita. Amina Jammeh è una giovane donna mandinka dalla età indefinibile. Amina ha un collo sottile come lo stelo di un calice di ebano, una testa nobile e perfetta, labbra
pneumatiche e occhi bistrati di nero, affetti dallo stesso leggero strabismo del fratello Buba. Ora il tempo che mi rimane per osservare distintamente l’area piantumata di fiori, il palmeto che orla la spiaggia, il mare e, depositata in questo scenario pigramente tropicale, la splendida figura di Amina Jammeh, sta per terminare. Il sole ha deciso che dopo l’apparizione di Amina non c’è più nulla di interessante da mostrare e si decide a tramontare tuffandosi nell’Atlantico. Fra poco l’oscurità nasconderà gli immancabili particolari più ordinari e banali presenti in questo scenario, mentre i lampioni del giardino illumineranno i contorni degli oggetti più nobili, come il profilo altero delle palme. Più tardi compariranno basse sull’orizzonte verso ovest due stelle che brillano più delle altre. Le due stelle si appenderanno sul cielo in posizione perfettamente sovrapposta una sull’altra e la loro luce si rifletterà sulla superficie del mare. Sarà Amina a spiegarmi che quei due corpi celesti comparsi con una sincronia ammirevole in realtà sono due pianeti. A differenza di quella delle stelle lontane, infatti, solo la luminosità intensa di un pianeta è in grado di riflettersi sul mare. Dopo avermi dato questa lezione di esotica astronomia, Amina si congeda da me e si allontana. Osservo il suo profilo da anfora minoica e il suo ancheggiare pigro e ballonzolante, che credo innocente e che sicuramente è ingenuo. Ora ricordo che solo le donne africane sanno istintivamente ballare quando camminano, e che la loro libertà al di fuori e lontano dalle corvées ingrate della loro vita domestica altro non è che uno splendido incedere su di una invisibile passerella. Qui termina la mia prima giornata all'albergo Boboi di Kartung, all'estremo sud del Gambia. Ora il giardino è immerso in un buio di pece, quindi salgo gli scalini che mi portano ad una terrazza sopraelevata di legno, coperta dal solito tetto di frasche di palma, dalla quale potrò continuare ad osservare il mare. L'ingresso della terrazza è sorvegliato da una grande maschera africana di legno scuro appesa alla parete. La maschera ha una espressione da demonio delle savane e di propiziatorio non promette nulla. Gli occhi dell’apparizione sono due fessure chiuse, il naso è rincagnato e la linea orizzontale della bocca socchiusa mostra due denti canini. Più che un feticcio benigno che allontana gli spiriti cattivi, la maschera sembra quindi essere, essa stessa, la manifestazione pittorica e scultorea di qualche spirito malvagio. Mentre i misteri di questo viaggio e di questi luoghi si sono accumulati, mentre continuo a farmi domande sulla vita di Buba e di Amina, e sulla strana
collocazione nel cielo dei due pianeti sovrapposti, la maschera sembra volermi dire che una risposta ai miei interrogativi proprio non l’avrò. Questo totem-sentinella posto all’ingresso della terrazza del Boboi lodge mi sta avvisando che ci sono cose in Africa che non è necessario che io sappia.