martedì 7 ottobre 2008

Il convitato di pietra

Alcuni anni fa ero impegnato insieme un gruppetto di ecologi di Milano nella protezione delle foreste tropicali d'Africa. Per quella nostra intrapresa e crociata ci servivamo di lettere aperte, lettere chiuse inviate ad autorità varie, pamphlets inviati a nessuno, ma soprattutto di parole, di tante parole che riempivano i nostri incontri e che dimostravano quanto bene avevamo metabolizzato le nostre letture di alcuni trattati di ecologia forestale e soprattutto della rivista National Geographic. I risultati pratici da noi ottenuti erano pochi, ma le numerose nostre discussioni condotte durante cene interminabili a Milano, coronate da solenni dichiarazioni d’intenti, tanto più solenni quanto più numerose erano le birre che avevamo bevuto, ci davano la sensazione di stare facendo qualcosa. Un giorno nel gruppetto di appassionati amatori di alberi che eravamo si presentò un nuovo arrivato, il console onorario del Gabon per la sede di Milano. Questo signore alla sua funzione di console abbinava una passione smisurata per le foreste del mondo che sono minacciate dalla distruzione ad opera delle multinazionali del legname. Data la nostra affinità di idee e di propositi, non fu difficile instaurare fra noi una frequentazione assidua, sempre con il comune denominatore di cene e bevute in vari locali di Milano. Cambiavamo locale abbastanza spesso, dato che il console era una persona volubile. Una sera il discorso cadde su come scrittori, divulgatori e romanzieri, italiani e non, si confrontavano con il tema delle foreste in pericolo. Io attaccai a parlare di Alberto Moravia, sui frequenti viaggi che lo scrittore aveva compiuto in Africa insieme al regista Andrea Anderman, sulla corrispondenza che aveva regolarmente inviato al Corriere della Sera e che da questo giornale era stata pubblicata nel corso degli anni. Mentre dicevo queste cose notai che l’amico console aveva smesso di mangiare e mi fissava. Che strano! Continuai a parlare di un viaggio che Moravia aveva fatto in Gabon. Nel suo articolo Moravia descriveva una pista di laterite rossa che si addentrava nella foresta pluviale, ricordava come il colore rosso della pista si stagliata su quello verde cupo della foresta e vedeva la pista come una ferita aperta nel cuore verde della foresta. Secondo il racconto ad un certo punto Moravia si stancò dei sobbalzi della Land Rover sulla pista e fece fermare il veicolo per fare una sosta ad un piccolo villaggio. Fu allora che lo scrittore fu avvicinato da un Europeo (nel testo di Moravia non si desume ch'era un italiano), venne avviata una conversazione, emerse che lo sconosciuto era un ecologo che si occupava della salvaguardia delle foreste. Non feci a tempo a finire il discorso, perché l’amico console seduto di fronte a me quasi saltò sulla sedia ed esclamò: ‘Ero io! sono io! l’ecologo ero / sono io! è in quel villaggio che ho conosciuto Alberto Moravia!' Porca miseria. L’amico console era una persona di grande sensibilità e una sua caratteristica era di pensare e agire in modo uterino. Il fatto che io fossi al corrente di quell’incontro tra Moravia e il console, senza sapere chi era quel lui, e tutto questo solo per averlo letto sul giornale, riportava alla sua memoria l'eccezionalità di quell’incontro, stabiliva un legame di fratellanza culturale fra Moravia, lui e me (!), e finiva per gettare un ponte di liane fra tre personaggi della foresta, uno illustre ed ormai entrato nel Parnaso dei maggiori scrittori mondiali, un bizzarro console del Gabon, e alla fine, vedi vedi, me stesso.
Al tavolo di ristorante che occupavamo c'era una sedia vuota. Era come se vi fosse seduto Alberto Moravia, con i suoi occhietti spiritati e le sue sopracciglia a cespuglio che si muovevano mentre parlava. Moravia era lì con noi anche senza esserci. Era il nostro convitato di pietra.

Dahab

nei giornali di questa mattina leggo che tre turisti italiani sono morti in un incidente stradale a Dahab, località turistica della penisola del Sinai situata a nord di Sharm-el-Sheikh, sulla litoranea che va a nord verso il confine israeliano. Ricordo che su questa riviera si sono verificate in passato altre sciagure piccole e grandi che hanno coinvolto turisti. Le esplosioni di bombe messe da attentatori provocarono morti a Sharm e all'Hotel Hilton di Taba, centro balneare a ridosso della frontiera e dirimpettaia alla cittadina israeliana di Eilat. Una persona che vive a Dahab e che conosco da tempo ogni tanto mi informa via e-mail di altri fatti minori che hanno rovinato
le ferie a più di un turista. Dahab era un villaggio beduino che negli anni 70 era diventato un centro hippy frequentato da giovani europei ed israeliani, poi ha seguito una vocazione turistica più commerciale e si è riempito di alberghetti e ostelli, e poi alla fine di hotel a 4 e 5 stelle. In Dahab io trascorsi un periodo abbastanza lungo quando la vita lì era ancora abbastanza quieta e c’erano solo soprattutto centri di immersione subacquea e ristorantini tipici affacciati sul mare. Dahab in arabo significa ‘oro’. A Dahab feci conoscenza con Achmed, un signore che aveva la sua casa al Cairo, ma durante la stagione turistica si trasferiva a Dahab con moglie e figli, maschi e femmine. Achmed e la sua famigliola vivevano in una bruttissima casa nelle retrovie di Dahab, in un paio di camere il tetto era scoperchiato, i mobili erano quasi inesistenti, i tappeti erano di
plasticone colorato fatti forse in Cina e comprati a buon mercato. Achmed, moglie, figlie e figli cucinavano, mangiavano e soggiornavano per terra, seduti su questi tappeti colorati. Forse ci dormivano anche, mettendo prima sopra un materasso di schiuma e un lenzuolo. Tutto intorno alla casa c’era una periferia lebbrosa, senza fognature, con mucchi di rifiuti gettati agli angoli delle strade, che il vento del deserto portava ovunque. Le capre erano dappertutto e brucavano sui mucchi di rifiuti. Vedi Dahab e poi muori. Achmed aveva preso in affitto un negozietto monoluce dall’intonaco
slabbrato, ma situato in buona posizione sul lungomare dove passeggiavano i turisti. E' a questi turisti Achmed cercava di vendere i suoi flaconcini di profumo immagazzinati alla meglio nel suo negozietto ed esposti in malo modo nella sua unica vetrinetta. Quando agganciava qualche turista e
riusciva ad adescarlo all’interno del negozietto, Achmed si lanciava in perorazioni incendiarie per esaltare la genuinità dei suoi profumi, ‘distillati dai fiori delle oasi più sperdute d’Egitto’. In realtà non a tutti è noto che
nelle oasi d’Egitto non ci sono fiori. Achmed riceveva con regolarità la visita di un commerciante del Cairo che gli vendeva bottiglie di alluminio contenenti essenze sintetiche prodotte a Grasse, Francia, e importate via Alessadria, oltre ad altre bottiglie di alluminio che contenevano diluenti. L’operazione di miscelazione (Ahmed piccolo chimico) avveniva sul r etro del negozietto, per terra, senza tappeti. Achmed aveva un occhio solo funzionante, l'altro occhio era una sfera di colore bianco lattiginoso. Vestiva
sempre e solo un jallabah bianco un po’ sudicio, aveva sempre una barba di 5 giorni, però non se la faceva crescere di più, forse per non sembrare un musulmano molto praticante. In effetti Achmed non era praticante: non andava alla moschea il venerdì, non faceva Ramadam, per motivi di 'salute', diceva lui, all'occasione beveva alcolici e fumava in continuazione. A parte questo Achmed era il più saggio, estroverso, vissuto e umoristico personaggio che io conoscessi nel Sinai. Achmed era fatalista e non si preoccupava di nulla al mondo. Se c’era un problema, la sua frase preferita era ‘we shall fix it’. Qualsiasi cosa poteva essere regolata, fissata. Fix, fix, fix.
Achmed era cordiale e buono e, nonostante le sue condizioni economiche poco allegre, ancheanche incredibilmente generoso. Mi ero affezionato ad Achmed. Durante il mio soggiorno a Dahab il cielo rimase grigio e
leggermente nuvoloso solo per un paio di giorni. Si diceva che ci fosse eccezionalmente stata pioggia all’interno del Sinai, all'incirca nella zona del monastero di Santa Caterina. Ricordo che poi tornò il sole a picco, quella
mattina uscii dal mio alloggio-bungalow per passeggiare verso il centro del paese. In prossimità dello 'ouadi' in secca vidi una folla di persone che bloccava la stradina del lungomare. Tutti guardavano davanti a sé, apparentemente verso l'altra parte del ouadi. Il muro di persone, turisti e
locali, era talmente fitto che io non riuscivo a vedere che cosa stessero guardando. Un passante a cui chiesi mi rispose che c’era dell’acqua.
Acqua? Improvvisamente dalla folla si levò un grido e tutti si misero ad arretrare confusamente, e poi a correre verso di me. Che cosa stava succedendo? me lo raccontarono dopo, quando tutta quella storia finì. Il giorno prima era piovuto all'interno del Sinai. Come sempre succede nelle zone desertiche, l'acqua piovana si raccoglie nelle 'ouadi', poi comincia ad accumularsi e a correre verso il mare. Il terreno non l'assorbe e la fiumana ingrossata può percorrere distanze impensabili, sempre cercando il mare. Nel frattempo ero tornato al mio bungalow e qui il proprietario degli alloggi stava tranquillizzando un gruppo di turisti israeliani sulle possibilità che l'acqua arrivasse fin lì. Stava dicendo 'non c'è alcun motivo di preoccupazione, lo sbocco del 'ouadi è a 200 metri da questo villaggio e qui siamo all'asciutto', quando da sotto il portone nord del villaggio un liquido color marrone cominciò a tracimare e ad avanzare tra i bungalow, poi si udì un colpo violento, il portone si spalancò di colpo come forzato
dall’esterno ed un’ondata di piena di acqua e terriccio grigio-marrone invase il posto, sempre più alta e sempre più potente. Una inondazione nel deserto!
Ero senza fiato. Le esortazioni del proprietario continuarono ancora un po’, poi cessarono del tutto, ci fu un fuggi-fuggi generale del personale e dei
turisti. Lo ouadi si era sfondato su un fronte di 200 metri verso nord e l’onda di piena era arrivata fin lì! In situazioni anomale succede che i pensieri più strani si affaccino alla mente. In quell'istante mi venne il pensiero che non avevo ancora fatto colazione. E’ incredibile come nelle
situazioni di emergenza la ragione analitica rimanga abbastanza imbranata, e con quanta prontezza invece si attivino l’intuito e tutta una serie di riflessi condizionati. Come se qualcuno mi avesse impartito un’istruzione ben
precis, entrai di colpo nella mia stanza, recuperai subito i miei documenti, impacchettai in un lampo il mio bagaglio compresi i miei libri, uscii dal bungalow mentre la fiumana marrone già arrivava al ginocchio e issai tutte le mie cose sul tetto a terrazza della struttura. Poi mi issai anch’io, rimasi in piedi sul tetto-terrazza e guardai verso lo ouadi. Questo aveva rotto il suo argine nord, la piena dell’acqua aveva investito la periferia del villaggio e gli impianti turistici a partire dal suo sbocco originario a mare su di un fronte di forse 300 metri. Retrovie di Dahab e frontemare erano ora invase da una fiumana color terra che aveva spazzato case, palme, stradine. Una parte di Dahab era sott’acqua, dalla mia posizione sul tetto vedevo le altre persone che si erano rifugiate sui tetti delle loro case, contemplavo lo scempio tutto attorno. Guardando verso nord, dove c’era la casa di Achmed, vidi che l’inondazione non era arrivata. Achmed e la sua famiglia erano rimasti
all’asciutto. La forza del fronte d’acqua che veniva dal deserto prese a scemare solo verso il pomeriggio, io scesi dal tetto terrazza per mangiare e bere qualcosa. Era la prima volta che facevo colazione alle 17:00. Il giorno dopo rividi Achmed e gli dissi quanto era felice che l’acqua non fosse arrivata fino alla sua casa. Ero costernato a vedere il villaggio di Dahab mezzo disastrato, la stagione turistica rovinata, le case incrostate di fango
bagnato, le strutture degli impianti turistici spazzati a mare, la stradina del lungomare distrutta. Achmed non si scompose molto e tra un tiro e l’altro di sigaretta disse solo: ‘no worry, they will fix it, they will fix it’.

Grazie, non fumo

Ero in viaggio in un’area della Tailandia del nord compresa all’incirca tra Chiang Mai e Chiang Rai, non lontano dal cosiddetto triangolo dell’oppio (mamma, che brivido), cioè la regione tailandese confinante con Myanmar e con Laos. Per visitare meglio la zona, in una cittadina noleggiai una motocicletta Yamaha 125 a due tempi e partii gasato e rombante come solo avrebbe potuto partire Cyril Neveu a cavallo della sua Yamaha Enduro XT500 per la Parigi-Dakar del 1980. Viaggiare in moto in Tailandia è un’esperienza bellissima, ma a patto di non cadere mai dalla moto. Lapalissiano, vero? L’altro inconveniente è che viaggiare in moto su quelle strade, e poi sulle piste non asfaltate, può essere divertente per i primi 45-50 km, poi diventa una galera. E’ per questa ragione che, trovandomi in una zona relativamente disabitata di colline ricoperte di giungla verde e sentendomi stanco, mi arrestai quando vidi che ai piedi di una collinetta più bassa nel mezzo di una radura sorgeva una grande costruzione di legno, probabilmente di teak, sormontata da un tetto spiovente di fibre e foglie di palma. La costruzione aveva tutt’intorno un patio di tipo coloniale sul quale qualcuno aveva sistemato panche e amache. Osservando più da vicino mi accorsi che quello strano casone era in uno stato malandato, come se non ci abitasse nessuno. In effetti non si vedeva anima viva e non si udiva neanche un rumore. Tutt’intorno la giungla con qualche uccelletto che cantava. Poi l’uscio di legno del sinistro casone si aprì scricchiolando (e dalli con gli effetti da brivido) e ne uscì un tailandese anziano, malvestito e con la bocca sdentata, ma sorridente. Naturale, in Tailandia tutti sorridono, anche se stanno per ucciderti. L’anziano signore agitò la mano per invitarmi ad entrare, io esitavo, ma lui continuava ad agitare la mano e a sorridere. Notai che un paio di denti gli restavano, ai lati della bocca. Alla fine entrai, l’interno era ancora più malconcio dell’esterno, c’erano varie camere semibuie, poi vidi delle specie di loculi separati da stuoie vegetali. C’era foschia nell’aria umida delle stanze e c’era uno strano odore di non sapevo cosa. Poi vidi che straiati su stuoie lerce in un paio di quei loculi c’erano due corpi di uomini scalzi che sembrava dormissero. O forse erano morti? Il mio fastidio diventò malessere, e in quel momento capii che non mi stavo più divertendo. Chi diavolo erano quei corpi, chi era quel vecchio bavoso e che cosa era quel casone? Poi l’anziano raccolse da una stuoia un cilindro allungato di legno chiaro e me lo porse, il cilindro aveva una imboccatura ad un lato e un caminetto all’altro e assomigliava ad un calumet o pipa lunga degli indiani d’America. Forse era l’afa tropicale o forse era la stanchezza del viaggio in moto, ma perché mai ci misi tanto a capire che quel tubo di legno era un chillom e quel casone era una fumeria d’oppio? Oppio! non l’avevo mai provato (questo sia ben chiaro) e, come diceva Oscar Wilde, se c’è una cosa a cui non so resistere, questa è la tentazione. E poi se non conosci il male come fai ad evitarlo ? (questa non ricordo chi l'ha detta).
Valeva quindi la pena, forse, di provare a fare un paio di tiri di chillom, sdraiato anch’io sulla stuoia del terzo loculo. Mi sarebbero venute delle visioni oppiacee, avrei visto delle cornucopie di frutta, cascate di perle sarebbero zampillate giù da scalinate di cristallo che scendevano direttamente dal paradiso, là dove mi attendevano 72 vergini. Lo so che queste appartengono ad una diversa interpretazione del paradiso, ma chissà che nell'empireo buddista ci fosse qualcosa di simile? Poi mi vennero dei dubbi: gli imprevisti, l’imponderabile. Ed ecco che mi sentii trasformato in Paperino, quando in cima al fumetto da un lato appare un paperino più piccolo e rosso che impersona un diavoletto, e dall'altro lato un paperino che fa da angioletto. Uno diceva: resta qui e fuma il chillom, l’altro replicava: non fare sciocchezze, quando ti sei ben messo a fumare e sei intontito, dalla stanza accanto sbucheranno due figuri delle triadi tailandesi che ti toglieranno soldi e passaporto, quest'ultimo buono da vendere al mercato nero. I due delle triadi sono esperti di kick-boxing e non si fermano di fronte a nulla, dopo avermi spogliato di tutto si consultano. La sua moto? Già provveduto. E di lui che facciamo? Non so, ma ho visto che è solo e non ci sono testimoni. Bene, allora facciamolo sparire. Poi i due mi passano intorno al collo un filo di ferro, io sorrido senza capire bene perché l’oppio mi ha ottenebrato la mente, i due ceffi annodano i capi del filo di ferro e cominciano a tirare. Durante l'operazione i due non smettono di sorridere, con quei loro occhietti da nazista.
Alla fine paperino angioletto ebbe la meglio, io declinai l’invito dell’anziano che stava sempre di fronte a me tendendomi il chillom, uscii dal casone, avviai la motocicletta e me ne andai.

Bali

che ci siano dei limiti alle capacità di integrazione di un viaggiatore in paesi che hanno usi e costumi diversi è un fatto che non tutti ammettono. Si ha un bel dire ‘quando sei a Roma etc’ ma anche con la migliore buona volontà questo non è possibile. In Bali, isola dell’arcipelago indonesiano situata fra Giava e Lombok, gli usi e costumi dei suoi abitanti sono originali e diversi anche rispetto al resto dell’Indonesia. La religione è la versione balinese dell’induismo importato nel paese in epoche lontane e poi emarginato dalla religione musulmana. Bali è l’isola delle danze delle fanciulle sacre, degli uomini che rievocano la pantomima di Hanumam, il dio-scimmia, dei templi sormontati da un portale a due strutture sinuose ai lati e rettilinee al centro. Il questo interstizio simbolo del passaggio dall’umano al divino sacerdoti e dragoni fanno la loro comparsa e prendono a danzare al ritmo di strumenti a percussione che hanno sonorità metalliche e arcane. Bali è sede del monte Agung, che a suo volta è sede dell’Olimpo Hindu e dimora di una fitta schiera di dei, semidei e demiurghi di vario genere. Il monte, ex vulcano spento, è sacro, le sorgenti che sgorgano dalle sue pendici sono sacre, come lo sono le risaie che le acque inondano, la vegetazione che ammanta le colline, e tutta la cosmologia che da vulcano, acque, terra e piante gli abitanti di Bali hanno derivato. In Bali tutto è sacro, il visitatore deve essere quindi avvisato che difficilmente riuscirà a vedere, toccare, calpestare, udire o anche solo odorare luoghi, persone, oggetti, immagini e simboli che non siano invariabilmente sacri. La festa di suoni, colori e aromi stordisce e incanta chi non l’ha mai vista e le meraviglie dell’isola non smettono di provocare, da trent'anni a questa parte, una fiumana di turismo barbaro che minaccia di ridicolizzare il tutto. All’interno dell’isola si trova il villaggio degli artisti di Ubud, dove ogni giorno si ascoltano i cimbali che accompagnano i frequenti riti, le processioni sacre, i matrimoni e i funerali. In Ubud io stavo soggiornando da un paio di settimane ed il fatto che lo riporti qui è pretesto per la narrazione del banale anneddoto che segue. In Ubud durante il giorno seguivo i riti e le processioni che riuscivo a rintracciare, di notte al tempio non avevo altri occhi e orecchie se non per le danze sacre delle fanciulle dalle dita che si muovono come petali e degli uomini che evocano il dio-scimmia. Ubud era diventata la mia fissazione ed anche una pericolosa assuefazione dei sensi e del cervello. Fu così che un giorno decisi di visitare il resto dell’isola e per primo il monte sacro Agung. Noleggiai un jippino Suzuki perché l’idea del veicolo tuttoterreno faceva scattare il riflesso condizionato dell’avventura da brivido. Rimasi deluso quando esaminando la scocca da sotto notai con sorpresa che mancava il treno anteriore, in altre parole la trazione era solo posteriore. Il noleggiatore mi spiegò che quel modello è importato in Indonesia di serie con la sola trazione posteriore. Mi sembrò una trovata leggermente da bidone, ma tant’è, Bali non è l’Africa e le sue strade sterrate sono facilmente percorribili. Partii e in giornata arrivai in vista del monte Agung. Mi trovai così a contemplare un cono scuro e austero che si stagliava sul cielo dell’orizzonte settentrionale dell’isola. La vista era impressionante, e a questa sensazione contribuiva certo il sapere che lassù abitavano gli dei. Ripensai all’allegro pantheon Hindu e alla sua immagine riprodotta ovunque nella iconografia classica di questa religione. Il dio Shiva è in primo piano, la sua pelle è blu, ha anelli alle caviglie e bracciali ai polsi, il capo è riccamente adornato. Shiva ha un aspetto femmineo, suona un flauto traverso mentre una dea a lui subordinata lo osserva con rapimento. Una folta schiera di altri dei, tra cui Parvati, circonda premurosa e sorridente Shiva, il dio di tutti gli dei. Ai suoi piedi è accovacciato Hanuman, il dio-scimmia, la testa levata in alto con devozione. Nella mia barbarie agnostica ho sempre associato la figura di Shiva a quella di un playboy circondato da uno stuolo di conigliette...
Terminata la contemplazione del monte Agung mi diressi ad un locale dove servivano cibo balinese, mi sedetti e dopo qualche minuto mi portarono un piatto a base di riso. Mentre mangiavo, un uomo seduto al bar girò il suo sgabello verso le tavole del ristorante e cominciò a discorrere con altri commensali che stavano mangiando. Dopo un paio di frasi l’uomo scaracchiò e sputò in terra, poi riprese la conversazione. Terminato un suo giro di frase, l’uomo di nuovo scaracchiò e sputò in terra. Io stavo mangiando, e con apprensione capii che i due sputi non erano una eccezione, ma facevano parte della conversazione, erano per così dire strutturali al modo balinese di fare conversazione. Soltanto in seguito venni a sapere che sputare serve a cacciar via gli umori e gli spiriti cattivi, o qualcosa del genere. Troppo tardi! L’uomo parlava e sputava in terra, continuamente, con regolarità e naturalezza. La tensione in me montava, mi dicevo che dovevo adattarmi agli usi locali, ma proprio non ci riuscivo. A un certo punto uscii dai gangheri, mi alzai e mi rivolsi all’uomo con garbo ma in modo deciso: ‘per favore, la vuole smettere di sputare in terra davanti a me? non vede che sto mangiando…’ La persona sembrava stupita ma per niente offesa. Smise di scaracchiare, fece qualche commento, io finii di mangiare il mio riso. Uscendo dal ristorante non capivo se mi ero comportato bene o male. Guardai in alto verso il monte Agung, e in quel momento mi parve di udire un lontano rumore affievolito dalla distanza. Tesi l'orecchio. E poi compresi: lassù gli dei, Shiva, Parvati, Hanuman e tutti gli altri, stavano ridendo.

Bidonvilles africane

Fare del turismo nell’Africa sub-sahariana non presenta particolari problemi di sicurezza a condizione di soggiornare in zone rurali o centri abitati minori. Le città invece possono diventare giungle urbane pieni di sorprese. Ecco qui un paio di esempi di raggiri in cui il turista europeo può incappare. A Nairobi, Kenya. Cammino sul marciapiede affollato di una strada del centro cittadino (Yomo Kenyatta Centre), un oggetto biancastro ruzzola in terra di fronte a me, l’oggetto sembra essere caduto dalla persona che mi cammina davanti. Mi chino e lo raccolgo, è una grossa busta rettangolare tenuta insieme da elastici, mentre affretto il passo per avvertire la persona che ignara continua a camminare lo sguardo mi si posa su dei caratteri stampati in neretto sul retro della busta. Vedo che è una distinta di numeri, questi sono importi in dollari e scellini keniani, al tatto sento che la busta è rigonfia di carte. Come scottato lascio cadere la busta sul marciapiede. Una persona che mi camminava a fianco e che solo ora noto raccoglie la busta, getta un’occhiata alla distinta di valute e subito mi mette una mano sull'avambraccio. Questi eventi si susseguono nel giro di brevissimi istanti tanto da sembrare simultanei, la mente è impreparata e non riesce a imbastire un giudizio chiaro su ciò che sta accadendo. La persona davanti a me, quella che deve avere perduto la busta, continua a darmi le spalle ed ora si sta allontanando, il compare che ho a lato e che mi tiene l’avambraccio mi sussurra: 'facciamo a metà'? La razionalità continua ad essere offuscata ma l’intuito, alimentato dalla somma di esperienze della vita di uno che non è nato ieri, comincia a illuminarsi della stessa luce che si intravede in fondo ad un tunnel. L’intuito ora mi urla ‘imbroglio’! Libero l'avambraccio dalla mano del mio complice del furto, mi allontano, cerco di confondere tutta la mia bianchezza nella folla nera che brulica nel Yomo Kenyatta Centre. Il sole è allo zenit nel cielo ma non scotta, l'aria è frizzante, Nairobi è a cavallo dell’equatore ma con i suoi 1600 metri di altezza ha un clima da sogno. Io però guardo poco il paesaggio urbano circostante, ripenso all'accaduto e continuo a ripetermi come un disco rotto che non sono nato ieri. I due della scam, della combine, della fregatura, lavoravano certo d’accordo. Non so bene come, ma se io avessi accettato di spartire quei soldi, ad un certo punto il jolly crudele sarebbe scattato fuori a molla dalla scatola, il tale che fingeva di aver perduto la busta sarebbe tornato indietro, avrebbe minacciato denuncia, il complice avrebbe testimoniato contro di me, poi avrebbero proposto di non sporgere denuncia in cambio di denaro, di tanto denaro, e la trappola si sarebbe richiusa su di me sotto forma di estorsione. Se non proprio così, le modalità della fregatura avrebbero avuto un andamento analogo. Importante per gli artisti da marciapiede di Nairobi sono le grandi linee del copione, il resto può essere improvvisazione.
Esempio di raggiro numero due. Aeroporto di Douala, Cameroun. A questa fregatura è difficile sfuggire perché è fatta a imbuto, come l'entrata di una nassa per intrappolare pesci. Chi la mette in opera sono agenti aeroportuali con distintivi, tessere e cartellini, e con quelli c'è poco da fare. Il mio aereo per l'Italia sta per partire, stanno imbarcando i passeggeri, mentre mi affretto a mettermi in coda vengo invitato ad un controllo supplementare. In una stanzetta un ufficiale di dogana ed uno di polizia mi chiedono di dichiarare il contante che ho con me. Il tempo stringe, un altoparlante ripete la chiamata per l'imbarco, io non ricordo quanto contante ho con me e non voglio mettermi ad aprire buste e portafogli. Rispondo che non so quanti soldi ho addosso, l'ufficiale insiste perché io dica una cifra, e aggiunge ‘una cifra qualunque’. La genialità del raggiro risiede nella parola 'qualunque’. Dichiaro un importo approssimativo di contante che stimo di avere e la trappola scatta. Il click non lo sento io, lo sentono loro. Ora i due mi ingiungono di vuotare tutte le tasche per verificare che io abbia realmente quella somma. Protesto replicando che mi parte l'aereo, ma i due sono irremovibili (non posso sapere che l’aereo non partirà senza che il pilota abbia ricevuto un OK via radio proprio da uno due, per l'esattezza il poliziotto grande arrotondatore di stipendi). Vuoto le tasche, vuoto il portafoglio e le buste, tutti e tre contiamo i soldi, la cifra ovviamente non può quadrare con quella che ho azzardato prima ed ora i due mi accusano di falsa dichiarazione ad ufficiali della Repubblica del Cameroun. Dovrò pagare una multa di xy CFA o di valuta estera, sul posto, immediatamente e nelle loro mani. La cifra è enorme, equivale a mezzo stipendio camerunese di un mese, scatto in piedi come una molla, il furore mi sale alla testa, gli occhi mi diventano fessure. Ho capito la scam, che lì si chiama 'magouille'. L’epilogo della scenaggiata però è tutto mio. Anche in questo caso l'aiuto non può venire che dall’esperienza in cose africane, permettete. Mi siedo di nuovo davanti ai due, mi fingo rilassato, annuncio che non verserò un solo CFA, l'aereo parta pure, io ritornerò in città e ripartirò la settimana prossima. Il mio bagaglio già nella pancia dell’aereo? che parta pure, lo ritroverà a Malpensa fra 7 giorni. E aggiungo: la mia azienda si farà viva con voi signori per sapere perché non sono partito, il grande chef non sarà contento, qualcuno vorrà spiegazioni. E poi aggiungo il finale: signori, non mi dispiace se non parto ora, stasera all'Aqua Palace di Douala (Hotel 5 stelle con discoteca dove suonano i migliori artisti del Cameroun) è di scena l’artista xy. I due sono stupiti, la radio gracchia un messaggio dall’aereo dove l’equipaggio attende un passeggero in ritardo, ci sono attimi di esitazione, poi arriva la soluzione. Il poliziotto lancia un latrato dentro la radio, poi un altro latrato a me: ‘raccolga le sue cose e si tolga dai piedi’. Mentre nel tunnel d’imbarco mi dirigo verso l’aereo, che ora ha i motori che fischiano, non affretto il passo, so che mi stanno aspettando e che farò un ingresso in cabina in stile VIP.

Komodo

...l'isola dei varani. Alcuni anni fa visitai quest'isola dell’arcipelago indonesiano, arrivandoci con una specie di vaporetto, insieme ad una comitiva di turisti. Volevamo vedere i famosi varani giganti e non stavamo nella pelle per la curiosità. Komodo è un’isola piatta e semiarida, c’erano acacie in giro, il colore dominante era un giallo che sfumava nel rosso lateritico. Ci incamminammo in fila dietro il guardiano del parco indonesiano e arrivammo ad una radura gialla e ricoperta di arbusti. La guida puntò il dito verso il centro e i bordi della radura e fu così che avvistammo i varani, lucertoloni preistorici, alcuni immobili al sole, altri che si muovevano pigri fra gli arbusti con un movimento apparentemente scombinato delle zampe anteriori e della coda. Ad un lato della radura c’era una palizzata di legno bassa e al di là di questa c’era una macchia più folta di arbusti. Nel momento in cui la guida puntò il suo dito verso la macchia di arbusti, da questi uscì un varano di grandi dimensioni, dondolandosi e scodinzolando in modo scombinato. Era uno splendido rettile grigio con la pelle d’iguana, che ora si era immobilizzato contro la rete della bassa palizzata. Mi sentivo stanco, quindi lasciai che la comitiva seguisse la guida che si allontanava per mostrare altri esemplari e rimasi solo ad osservare il grande varano king kong. Fu allora che mi venne un'idea. A volte succede che il caldo e la stanchezza, sommate alla scarsità d'informazioni che si ricevono, inducano a fare cose strane. In realtà sono scuse sempre deboli, che non legittimano a combinare tutta una gamma di sciocchezze che vanno dalla semplice idiozia alla balordaggine senza confini. Percorsi i metri che mi separavano dal varano-ciclope e mi accovacciai a terra proprio di fronte a lui. Tra noi due, complici in una piccola avventura fatta di stupidità e di ferocia, solo una maglia di rete. Il corrimano in legno della transenna non era più alto di un metro. Era proprio una bestia enorme e squamosa, dal foro al centro del muso affilato ora usciva una lunga lingua vermiforme, biforcuta, da serpente. O da demonio! L’occhio della bestia era neutro, da sauro che aspetta non si sa che cosa. Passò un certo tempo, poi la mia visita fu interrotta dalla voce del guardiano che chiamava nella mia direzione. Il gruppo aveva terminato il breve giro ed era tornato alla radura. Salutai il varano immobile, mi alzai e raggiunsi il gruppo. Il guardiano mi spiegò che non mi era permesso avvicinarmi in quel modo agli animali, che la rete era un riparo solo per così dire simbolico. Aggiunse che le bestie non sono per niente tranquille quando non hanno mangiato. Il varano anoressico! Ricordo che l'indonesiano pronunciò anche quella frase ‘they can jump’, che mi svegliò del tutto dal mio torpore di turista tropicale con la camicia a fiori. Il guardiano disse anche che a lui e ai suoi colleghi guardiani non era permesso portare armi da fuoco. In caso di attacco alle persone, anche se turisti, la legge indonesiana proibiva a chiunque di ferire o uccidere i varani. Sono una specie protetta, aggiunse.

Emozioni balistiche

una proposta per le ferie natalizie: soggiorno a Punta Cana, Repubblica Dominicana, là dove le spiagge sono di corallo bianco e il mare è blu cobalto, più escursione e visita alla capitale, Santo Domingo. Qui da non perdere è una serata alla discoteca 'Guacara Taina', dove le emozioni possono addirittura diventare esplosive. La discoteca è situata nella zona ovest della città, è meglio non andarci prima delle 23:00, e non a stomaco vuoto per reggere meglio i cuba libres. Un ‘truquito’ che imparai a suo tempo era di andarci dopo avere mangiato una quantità di pane o pizza. All’ingresso della discoteca non lasciatevi suggestionare dal cartello che recita: ‘Se prohibe la entrada con armas de fuego’. Si tratta di una formalità e pochi ci badano, ora vi spiego come. La prima volta ci andai accompagnato da conoscenti dominicani, varcato l'ingresso mi dissero ‘vieni, ora scendiamo’. Scendere? La ‘Guacara Taina è una grotta sotterranea!, anzi tre grotte sovrapposte in posizione sfalsata nel sottosuolo. I pavimenti sono ricoperti da stalagmiti, dalle volte delle grotte pendono meravigliose stalattiti, pavimento, pareti e volte sono ricoperte da umidità naturale illuminata dalle luci stroboscopiche con tutti i colori dell'iride. Per il visitatore che vede la Guacara per la prima volta questa discoteca è uno schianto. In effetti questa è la più lussuosa discoteca di Santo Domingo, e forse una delle più originali al mondo. Quella mia prima serata fu da ricordare, perché verso la una del mattino, mentre ci trovavamo nella grotta intermedia, la più grande, e proprio mentre risuonavano le note dei ‘Cuatro y Cuarenta’ di Juan Luis Guerra, si udì una serie di detonazioni da sparo che provenivano dalla grotta più bassa. Non so dire come, ma tra le grida di signore impaurite e fuggi fuggi di tutti quanti, in un baleno la pista della disco rimase completamente vuota. Dov’erano finiti tutti? Nascosti dietro le stalagmiti? appiattati in qualche anfratto? Dal soffitto pendeva un grosso globo roteante di metallo scuro, irto degli aculei delle luci psichedeliche. Sembrava una mina della marina militare dominicana. Insieme al globo roteavano tutte le sue luci stroboscopiche, e a questo vortice di luci si incrociava lo sciame di puntini luminosi di un altro globo rotante, ricoperto da lustrini a specchio. Le note dei 4 y cuarenta intanto continuavano nitide e distinte come prima. La sala era vuota, e in quella strana solitudine piena di suoni e di luci che si muovevano come fantasmi ascoltai fino in fondo una delle più belle ‘salsas’ del momento. Talmente bella che riuscii a memorizzarne le parole:
‘Nos encontramos una tarde / bajo el sol de Primavera / Tú caminando entre mis pasos, yo vistiendome en tus huellas / Y nos amamos cara a cara / Y nos besamos en la calle / Y tanto amor se fué fundiendo / Que ahora no puedo olvidarte / Mil razones para amarte / tu eres mi razón primera...’

La valle dei monumenti

Quando la attraversai per la prima volta, alcuni anni fa, rimasi senza fiato di fronte allo spettacolo più grandioso al quale la natura mi avesse mai invitato. La valle dei monumenti è un oceano di terra sovrastato da un altro oceano di cielo. Su questa pianura rossa e scura pilastri enormi di roccia si elevano come per raggiungere il cielo, ma senza arrivarci perchè le loro sommità sono troncate. Come tante torri di babele incompiute e poi abbandonate da una umanità in fuga, queste formazioni gigantesche si susseguono una dopo l’altra in uno spazio che sembra non finire mai. La terra, la polvere della pianura, le torri di roccia e l’orizzonte, sono tutti del colore della terracotta, dell’ocra e del girasole. Se il sole è a picco nel cielo è un astro da incubo, se è al tramonto e basso sull'orizzonte è il tuorlo di un uovo rotto. Nella valle dei monumenti il grande diventa grandioso, le distanze si moltiplicano e le persone non devono sostare, ma solo transitare. (vi è piaciuto il mio volo pindarico? a me piacciono sia i voli pindarici sia tutto ciò che sa di barocco e dannunziano). Per visitare la valle dei monumenti occorre un automezzo robusto, meglio se a doppia trazione, e in perfette condizioni di meccanica. L’orientamento non è un problema, la strada è generalmente in buono stato, descrive vaste curve o si appunta in un rettilineo che finisce chissà dove. In qualunque punto il visitatore si trovi, i torrioni dei monumenti sono sempre visibili, come guardiani giganti che non perdono mai di vista l'intruso. Percorrevo dunque la valle lungo l’asse stradale che l’attraversa, ricordo che sulla mia destra, verso nord, c’era la processione funebre e immobile delle torri, sulla mia sinistra, verso sud, una falesia lontana. Sulla strada non c’era nessuno, sui bordi della pista nessuno, e nessuno si vedeva da qualsiasi parte girassi il collo. Ero solo nella valle, al volante del mio mezzo, l’unico rumore era il ronfare del motore. Ad un certo punto mi parve che la carica onirica di quel percorso andasse scemando, e decisi di fermarmi. Accostai al bordo della pista, spensi il motore, scesi dall'auto e mi guardai all'intorno con il ronzio della meccanica che continuava nell’udito. Non c’era anima viva. Dopo alcuni minuti vidi una macchia scura che si muoveva lontana sull'orizzonte a destra della pista. Lentamente la macchia si materializzò in figurine umane. Aguzzai la vista come incredulo. Erano tre esseri che si muovevano rapidamente verso di me. Passò un quarto d'ora, ecco che le tre persone erano più vicine, e allora vidi che avevano sandali grossolani, tuniche corte di colore indistinto, specie di bastoni o pertiche in mano, una portava il cappello a cono tipico delle popolazioni locali, tutti e tre avevano la pelle nerissima e lucida. Tunica corta, pelle nera, cappello a cono? Ah, non ho precisato che quella che percorrevo non era la valle dei monumenti degli Stati Uniti d'America, ma della Repubblica del Mali! (vi è piaciuto lo scherzetto?). Avevo accompagnato dall’Algeria 4 automezzi di turisti lungo la pista che attraversa il Sahara da nord a sud. Con partenza da Ghardaia, avevamo raggiunto El Golea e poi Adrar, qui avevamo infilato la difficile pista della Bidon V fino a Bordj-Moktar (Algeria), per arrivare dopo 3 giorni a Gao sul fiume Niger, in Mali. In questa località mi ero congedato dal gruppo che voleva andare per i fatti suoi ed avevo proseguito da solo attraverso il Mali, per poi attraversare il Burkina Faso, con destinazione finale Abidjan, Costa d’Avorio. A Gran Bassam, a est di Abidjan, mi attendeva una settimana di riposo sulle spiagge del Golfo di Guinea. Il problema ora erano quelle persone sbucate dal nulla della valle dei monumenti e che si avvicinavano spedite dritto su di me. Non era questione di avere paura, ma solo di scansare inconvenienti. Erano senz’altro viaggiatori solitari attirati dalla vista dell’automezzo fermo al bordo della pista, circondato da una solitudine assurda, forse volevano chiedermi dei biscotti, dell'acqua, qualche soldo. Oppure erano briganti che stavano per piombarmi addosso ed infilzarmi con qualche loro spiedo nascosto sotto le tuniche, e allora avremmo inaugurato una specie di corrida di nuovo genere in quell’arena immensa e senza spettatori. Mancavano poche decine di metri tra la mia auto e quella gente. Scattai in una serie di azioni rapide e meccaniche. Re-infilai l’asticciola metallica nel foro di livello dell’olio-chiusi di scatto il cofano-aggirai l’auto-raccolsi bidone dell'acqua-il binocolo-altri oggetti, etc. Ah, le qualità fuori del comune dell'uomo bianco in quelle situazioni! il suo superiore senso del tempismo, del coordinamento di causa ed effetto, la sua splendida capacità di reazione! I tre erano a pochi passi da me ma io stavo per involarmi da loro perché ero ormai l’auto era pronta a partire. Se anche erano predoni, io li avevo fregati. Mancava solo il portellone posteriore da chiudere ed eseguii l’operazione in un lampo. Mentre lo chiudevo con un colpo vigoroso, il mio pollice sinistro rimase imprigionato nel portello e questo si chiuse a pinza sul mio pollice con tutta la potenza dell'angolo formato tra il bordo e lo stipite che si chiudeva. Il dolore si scaricò attraverso il dito e saettò fino al cervello, la sofferenza mi fece piegare in due a bocca aperta e senza fiato. Il sangue doveva essersi ritirato dalla faccia e dalle mani e doveva essere rifluito altrove. Vidi che i tre erano su di me. Ero nei guai. Nella valle dei monumenti avevo commesso un errore monumentale. Poi vidi che i tre mi passavano accanto lentamente, osservando l’auto e me piegato in due con quella strana smorfia. Tutti e tre dissero ‘bonjour’, poi ripresero il loro passo normale e si allontanarono. Credo che rimasi una buona mezz’ora accovacciato a terra, con il dito in mano che assomigliava ad una dalia, in attesa che le ondate di dolore si calmassero. Poi, come uno scarafaggio, entrai nella cabina dell’auto, misi in moto e mi avviai lungo il rettilineo della pista, con destinazione Abidjan. Lungo il tragitto ripensai ai tre viandanti che mi avevano salutato. Erano tre uomini del popolo dei Dogon. Il nostro incontro aveva rallentato solo di qualche istante il loro cammino verso la lontana falesia in direzione sud che era la loro casa.

Le tribù bianche

..era il 24 dicembre di non ricordo quale anno, e mi trovavo su di un pulmino-navetta che dall’aeroporto di Kigali, Rwanda, trasportava i passeggeri verso il centro città. Era successo che all'aeroporto di partenza di Dar-es-Salaam, Tanzania, un'attendente della compagnia aveva comunicato ai signori passeggeri che, désolée, per motivi tecnici il volo non era più diretto per Bruxelles, ma che era previsto uno scalo con pernottamento in Kigali e partenza il giorno dopo. La compagnia era Sabena, e una volta l’annuncio terminato mi rammentai della freddura che circolava nell’ambiente e che suonava: Sabena, such-a-bloody-experience-never-again. Il pulmino-navetta trasportava tanzaniani, rwandesi, oltre a un gruppetto di turisti di campionatura europea assortita. C’erano un paio d’inglesi, parecchi tedeschi, dei belgi. Il bus entrò in un quartiere residenziale di Kigali, percorse un largo viale alberato ai cui fianchi si allineavano ville bianche con porticati in stile coloniale, schifiltosamente appartate nelle loro 'pelouses', prati d'erba chiara che parevano terreni da golf. Eravamo nel quartiere delle ambasciate, delle residenze dei bianchi e della momenklatura rwandese.
Come ho detto non ricordo l’anno di quel Natale, ma so che precedeva di forse sei o sette la tragedia del grande, finale, pauroso genocidio etnico tra hutu e tutsi del 1994.
Il pulmino si arrestò al porticato d'ingresso di un hotel 5 stelle convenzionato con la Sabena, scaricò i turisti e ripartì. Sparimmo tutti nelle nostre stanze per doccia e riposino, poi a sera il gruppetto di turisti europei si ritrovò a cena nel ristorante al piano terra. Il menu proponeva squisiti piatti della cucina belga. Al termine della cena il dessert non fu dolce. Cominciarono i primi mugugni, i dubbi sui motivi tecnici dello scalo imprevisto, e poi a Kigali!, la vigilia di Natale in viaggio, etc. Dopo le lamentele ci fu un po’ di small talk, e finito anche quello si cominciò a parlare degli africani, dell’anomalia della divisione delle società africane in etnie che invariabilmente si odiano, dell’odio fra Hutu e Tutsi. Devo ricordare che il grande genocidio tra Hutu e Tutsi del 1994 non fu l’unico ad accadere in Rwanda, fu solo il più catastrofico. La mattanza del '94 fu preceduta da decenni di numerosi, periodici guai etnici. Dal giorno della sua indipendenza nel 1962, Rwanda e Burundi hanno conosciuto ben pochi periodi di pace. In quella sala da pranzo dell’hotel Sabena, alla vigilia di Natale, pensai alla stranezza che induceva i bianchi europei a parlare degli africani sempre e solo come riempitivo dei vuoti di una conversazione. Sembra proprio che gli africani e le loro bizzarrie debbano fare da ruota di scorta e da capro espiatorio per tutti i vuoti di memoria o d’ingegno dei bianchi. Le deprecazioni per il male delle etnie che affliggono l’Africa continuarono per un certo tempo. Aveva già smesso di ascoltare i commenti dei nostro gruppo di turisti tropicali e avevo cominciato ad osservare la tavolata all’altro lato della sala. Qui stava finendo di cenare l’equipaggio del nostro aereo, c’erano signori ancora in divisa, tra cui il capitano, gli attendenti, forse un paio di meccanici. Fui sorpreso al vedere quanta gente ci vuole per far volare un aereo. Tutti parlavano in fiammingo ed io non capivo nulla della loro conversazione. Ad un certo punto dal gruppo dell'equipaggio il volume delle voci aumentò, ci fu uno strepito di esclamazioni, un parapiglia di imprecazioni. Era scoppiata una lite! Tutte le facce della sala si voltarono come girasoli verso quella tavola, cucchiaini da dessert restarono a mezz’aria, bocche rimasero spalancate. Era una lite tremenda, piena di livore e di rancore, si era spalancato un verminaio! Capii che il diverbio si era acceso tra il personale Sabena e quello dell’hotel, ora vedevo che un paio di inservienti in piedi dietro la tavolata, vociavano piegati in due, con il collo torto, all’indirizzo dei commensali. Le parole erano diventate coltelli, forchette, trinciapolli, schiaccianoci, tritacarne, armi improprie da cucina. Credetti di capire che l’equipaggio era fiammingo, il personale d’hotel vallone. All'inizio tutti vociavano in fiammingo, poi si passò al francese: ‘hargneux! vous nous vexez! je veux récupérer mon argent!'. Era una lite per una questione di soldi, il rancore era grande, i toni così furibondi che pensai che stessero per venire alle mani. Nessun problema, solo che la sala da pranzo di un hotel di categoria non era il ring adatto. Che vergogna. Poi la lite finì com’era cominciata. Con un sorrisino imbarazzato noi turisti ci alzammo da tavola e salimmo nelle camere. Un’ora dopo ero disteso sul letto e guardavo il soffitto della stanza. Era il 24 dicembre di un anno che non ricordo, gli ammazzamenti fra hutu e tutsi erano già scritti nel futuro, e le due tribù bianche a sud e a nord di Bruxelles quella sera non erano state un buon modello di convivenza. Queste erano le tribù che fino al 1960 tenevano sotto il tallone l’intero bacino del Congo, compresi i territori degli attuali Rwanda e Burundi. Decenni erano trascorsi, ed ora Kigali era una città in cui Hutu e Tutsii vivevano gomito a gomito in una commistione così stretta da rendere un reciproco massacro tecnicamente difficoltoso. Kigali era diventata una città aperta.

Sonorità mistiche

un breve anneddoto di un viaggio in Kerala, India. Nei pressi della cittadina di Kottakal mi trovavo ad osservare un magnifico tempietto Hindu, quando notai che una piccola processione di fedeli si apprestava ad entrare nel luogo sacro per celebrarvi un ‘puja’, o cerimonia religiosa. Chiesi all’anziano Sadhu, che stava a guardia dell’ingresso del tempietto, il permesso di partecipare alla puja. Il guardiano, che aveva addosso come unico indumento un 'dhoti' intorno ai lombi e aveva disegnato sulla fronte un simbolo a U tracciato con cenere, mi diede il suo consenso con il tipico sbattimento laterale della testa che significa ‘fa pure’. Tolte le scarpe, percorsi tre volte la circonferenza dell’edificio sacro in senso orario,
entrai nel tempio e nel vestibolo sostai davanti alla donna in sari che officiava il rito. Le mani della donna tenevano stretta una ciotola di acquasanta, in quell’acqua io immersi le mani e mi bagnai il viso e la nuca. Poi l’officiante prese con le dita un pizzico di polvere rossa contenuta da
un’altra ciotola e con pollice e indice toccò la mia fronte. Ero pronto per la puja. Lasciai un’offerta ed entrai all'interno del tempio. La sala interna era un ambiente stranamente spoglio, a pianta quadrata. Soltanto nella
parte superiore delle pareti erano stati incastonati loculi quadrati, di circa mezzo metro di lato. La serie di loculi proseguiva lungo tutto il perimetro delle pareti e al loro interno, protette da una vetrinetta, erano racchiuse statuette e altorilievi in gesso dipinto che rappresentavano varie divinità. Il centro della stanza era occupato da un grande altare in pietra, adornato
questo con una dovizia di sculture e d’immagini sacre, irto di bastoncini d’incenso accesi. Sulla sommità dell’altare centrale sedeva la divinità principale del tempio, il dio-elefante Ganesh, mezzo avvolto dal fumo d’incenso. A volte si producono situazioni in cui la mente abbandona
le sue difese e diventa vulnerabile, lo scetticismo più inossidabile comincia a scrostarsi e le miscredenze più coriacee a cedere. Ovviamente si tratta solo di sensazioni illusorie, la colpa è del fumo d'incenso che inebria, della stranezza delle immagini, o del significato indecifrabile dei simboli
sacri. Tuttavia in quel momento mi domandai se fra tutte le divinità del pantheon Hindu ce ne fosse almeno una in grado di rispondere ad un paio di mie domande senza tempo sul senso delle cose del mondo e della vita, oltre al senso di quell'altra vita che invece, con una buona dose di narcisismo, si vorrebbe vivere in eterno. Mi sentivo mistico. Improvvisamente dietro di me risuonò una serie di note melodiose, a tutto volume. La suoneria di un telefono cellulare! Alle mie spalle un tale aveva estratto da una tasca un telefonino con lo schermo illuminato nell'oscurità
del tempio e aveva cominciato una conversazione a bassa voce, mentre si dirigeva verso l'uscita del luogo sacro. Io mi sentii mortificato. Le espressioni degli dei in effige si erano rinchiuse in se stesse, offese dalla suoneria del cellulare idiota, ed io mi sentivo offeso insieme a loro.
Gli dei forse stavano per dirmi qualcosa, ma quel tale con il telefonino aveva rovinato tutto. Uscii dal tempio e sostai all’aria aperta nel giardinetto attiguo all’edificio sacro. All’improvviso l’aria vibrò di nuovo, questa volta di
una sonorità cupa e potente, un rumore inspiegabile che veniva dall’altra parte della siepe che circondava il tempio. Nel giardino c’erano altri fedeli, a questi domandai che diavolo (sic) c’era dall’altra parte del tempio, ma
nessuno sapeva, nessuno ci badava. Sembrava un cinema all’aperto, per di più con l’audio che funzionava male! Ero deciso a scoprire la verità, così mi aprii un varco nella siepe folta e sbirciai dall’altra parte. Era il giardino di
una casa privata, all’aperto era stato sistemato un mega-televisore, il volume era regolato al massimo, ma l'altoparlante era difettoso. Doveva essere la proiezione di qualche pellicola di Bollywood. Mentre mi allontanavo dal tempio ricordai di avere letto da qualche parte che il Kerala, pur essendo una regione ricca di meraviglie culturali, era purtroppo la località più rumorosa del'India.

La clinica dei matti

La clinica dei matti
Nella cittadina di Kottakal, in Kerala, India, ha sede una prestigiosa clinica ayurvedica, la ‘Arya Vaidya Shala’. Era il mese di dicembre di alcuni anni fa ed io avevo deciso di rifarmi la salute con un soggiorno di quattro settimane (4!!) in questa clinica. Accettavo come un segno del destino, o meglio del karma, di passare anche quell’anno il Natale lontano da casa. Il campus della clinica occupa una vasta area alla periferia meridionale di Kottakal, ha un giardino interno e i vari fabbricati sono circondati da uno spesso e alto muro di cinta, un po’ come quello del carcere di San Vittore a Milano. In quella clinica con l’Ayurveda non si scherza, chi ha cominciato a curarsi deve andare fino in fondo. Forse quel muro alto l’avevano messo lì per aiutare psicologicamente i pazienti a perseverare nelle cure. Quando varcai il cancello della clinica guardai il muro di cinta, pensai alle mie 4 settimane già prenotate ed il cuore mi si affondò nel petto. Mi dissi che accettando l’idea del peggio già all'inizio, qualunque cosa fosse successa in seguito sarebbe stata più sopportabile. Non potevo sapere di essere all'inizio di una permanenza a dir poco farsesca e divertente. L'edificio della clinica è su 4 piani, con il piano più alto interamente occupato da un padiglione per le sedute di yoga. Mi fu assegnata una camera al terzo piano, con bagno, lettino tipo branda, balcone sul giardino e televisore a colori. All’ingresso della stanza la parete era percorsa da una mensola larga e molto lunga. A che cosa doveva servire? Sulla parete erano appesi i quadri dei padri fondatori della clinica, una immagine di Shiva, una grande tabella con un lungo elenco di regolamenti e prescrizioni salutari, corporali e spirituali ad uso dei pazienti. Già il primo giorno ricevetti la visita in camera del primario e dei suoi assistenti. Cercai di spiegare che il mio problema non erano solo i dolori cervicali, ma tutta una serie di molestie come bulimia, ronzii alle orecchie, etc. L’équipe medica si consultò più con gli occhi che con le parole, poi si congedò. Dopo un paio d’ore un infermiere mi portò una decina di boccette, vasi, ciotole contenenti liquidi dai colori più vari, enormi compresse alle erbe, tavolette di sostanze colorate e molli come cera pongo. L’infermiere dispose il tutto sulla mensola e mi disse che nel pomeriggio mi avrebbe portato il resto. Il resto? Ecco a che serviva il mensolone! Sotto ogni prodotto l’infermiere aveva infilato un foglietto con l’indicazione degli orari di assunzione e le dosi. Esaminando il liquido giallo di un flacone ricordai di avere letto sul quotidiano ‘The Hindu’ che l’ex premier Desai del Janata Party, il partito Hindu di estrema destra conservatrice, quando ancora era ottuagenario beveva ogni giorno un bicchiere di orina di mucca. Mi feci un appunto mentale per chiedere al primario da dove veniva il colore giallo di una mia medicina. La mia giornata era regolata nel modo seguente. Al mattino sveglia di buon'ora, camminata rapida in giardino per inalare il prana, colazione alla mensa del pianterreno, a metà mattina massaggio ayurvedico, pranzo, pomeriggio libero, alle 18:00 seduta di yoga terapeutico nel padiglione-terrazza sopra il quarto piano. La dieta era rigorosamente vegetariana, le prescrizioni morali impartite dalla direzione prevedevano l’astensione dal linguaggio licenzioso, la correttezza morale, la pulizia di fuori e di dentro. Feci ben presto conoscenza con gli altri pazienti della clinica. C’era una signora inglese, una dottoressa, che si diceva afflitta da una serie di allergie a sostanze varie, cibi, colori, odori. Un’altra signora bionda platinata, non più giovane, esuberante, si presentò dicendo di essere italiana, di Trieste, attaccò a parlare di Sonia Gandhi, disse che nella clinica in una settimana era diventata oh, così popolare essendo italiana, perché a molti indiani

piacciono Sonia Gandhi e quindi gli italiani. L’italiano però lo parlava con la buccia e ad un certo punto mi presentai anch’io come italiano e le chiesi da quanto tempo aveva lasciato la Bulgaria. La signora bionda, Lily era il suo nome, fu sorpresa che avessi riconosciuto il suo accento bulgaro. Le spiegai che di mestiere un tempo facevo il linguaiolo/traduttore, che avevo l’orecchio fine e che in più conoscevo i Balcani. Le appioppai il nomignolo di ‘Lily-Fior di Loto’. Scoprii più tardi che Fior di Loto non aveva nessuna malattia, era lì perché le piaceva l’ambiente. La dottoressa inglese invece era davvero malata, soffriva di crisi psicologiche con cambi di umore repentini e lunatici. Non si stancava di enunciare la lista delle sue allergie, ogni volta aggiungendone una. Mi ricordava Emily Dickinson, che visse per anni
rinchiusa in casa, vestendosi solo di bianco. La dottoressa non si comportava bene con me, un giorno bussò con forza alla mia porta, entrò senza salutare, si sedette davanti al mio televisore e lo accese. Mi spiegò che nella sua stanza non c'era tivù. Dopo un po' tirò su le gambe e poggiò i piedi sulla mensola del televisore, sporcandola con le sue scarpe. Dopo un altro po’ mi chiese se poteva usare il mio bagno, senza attendere la mia risposta prese la porta del bagno e vi restò rinchiusa a lungo. Quando uscì le chiesi se il suo bagno (la sua stanza era al secondo piano) era rotto o qualcosa del genere. Decisi che la dottoressa era un po’ suonata e lasciai perdere. I giorni passavano, il primario mi aveva spiegato che le sue medicine non contenevano orina di mucca. Quando gli chiesi se poteva fare qualcosa di specifico per il mio ronzio alle orecchie rispose 'senz’altro'. Quello stesso pomeriggio un infermiere mi portò in camera una specie di shisha egiziano da cui usciva un lungo tubo di gomma che terminava in un beccuccio sottile. Alla base di quella cosa c’era un focolare che conteneva braci ardenti e tavolette di sostanze alle erbe. L’infermiere mi spiegò che dovevo infilare il beccuccio del tubo nell’orecchio che ronzava e azionare delicatamente una specie di soffietto. Il fumo doveva entrarmi nell’orecchio! Gli chiesi da dove sarebbe uscito il fumo entratomi nell’orecchio, ma l’impiegato non seppe darmi un risposta precisa. Un giorno alla reception della clinica si presentò un nuova paziente, una ragazzotta non tanto bella che disse anche lei di essere italiana. Anche lei parlava l’italiano con la buccia (toh!) e di primo acchito non riuscii a capire da quale paese venisse in realtà. Ma poi lo capii e le dissi ‘tu sei albanese’. Anche la ragazza rimase sopresa come lo era stata Fior di Loto e ancora una volta dovetti spiegare che conoscevo i Balcani (sbadiglio), che ero un fine conoscitore di accenti e di dizioni, etc. La
signora albanese aveva una stanza al primo piano, non partecipava mai alle sedute di yoga, non veniva mai in mensa e si faceva portare il pasti in camera. Ogni volta che casualmente passavo al primo piano notavo che la sua porta era sempre spalancata. Che strano. Al terzo piano, proprio di fronte alla mia porta, soggiornava una giovane signora svizzera, smunta e taciturna. Gli altri pazienti mormoravano che la signora svizzera faceva solo dei clisteri, nient’altro che clisteri. Altri giorni passarono, le sedute di
‘therapy yoga’ avevano un benefico effetto, le sedute di massaggi ayurvedici e di versamenti di olio sul capo, etc, un po’ meno. Una sera, passando davanti alla porta spalancata dell’italo-albanese, questa mi vide e mi invitò ad entrare. Appena fui entrato la ragazza si alzò e chiuse la porta di scatto. L’intermezzo che seguì lo voglio saltare a piedi pari perché non vale la pena riportarlo. Con tutto il rispetto e senza volgarità devo però dire ciò che appresi. La ragazza era in quella clinica solo per rimorchiare (uomini).
Dopo avere capito la sua disponibilità, pensai a due cose. La prima era che copulare in una clinica dove in ogni stanza stava affisso ben chiaro il codice morale da seguire, bene, non era di buon gusto. In secondo luogo per me fu decisivo constatare che la ragazza aveva un aspetto decisamente disadorno.
Le dissi che ero malato, che avevo dolori dappertutto. Le parlai di Sonia Gandhi, dell’orgoglio di essere suoi connazionali. A parte mi misi a riflettere che, a quanto pare, se c’era un posto al mondo dove valeva la pena di essere italiani, questo era proprio Kottakal, Kerala, India. Altri giorni passarono, anche il giorno di Natale passò. Il pomeriggio successivo alla nostra festività mi trovavo nella mia stanza scrivendo al portatile e gettando ogni tanto un'occhiata al televisore acceso con volume a zero. Notai che una emittente trasmetteva immagini di costiere, di barche di pescatori spiaggiate, di mareggiate insolitamente forti. Da dove veniva quella burrasca? Il tempo era splendido e soleggiato...Dopo un paio d’ore vidi che la stessa emittente continuava a trasmettere sequenze con riprese di spiagge, barche, onde da tempesta. Che strano. In quel momento qualcuno bussò furiosamente alla mia porta, all’aprire si precipitò all’interno la dottoressa mattoide, che si diresse al mio televisore e vi si piantò davanti. Dopo un po’ le chiesi se le piaceva il mare. Si voltò di scatto e gridò: ‘Ma non sai ancora nulla?! Sumatra! Terremoto! Catastrofe!’ Era il 26 dicembre 2004 e dal suo epicentro al largo di Sumatra una gigantestca onda anomala aveva
devastato l’Indonesia del sud-ovest, l’archipelago delle Andamane e si era abbattuto sulle coste dell’India orientale. Ora l’ondata ciclopica aveva fatto il giro del Deccan e aveva raggiunto anche le coste del Kerala. Era la muraglia semovente e liquida di un grande, spaventoso tsunami!

I vitelloni del Cairo

Parecchi anni fa, la prima volta che vidi la piramide di Cheope sulla spianata di Gizeh, rimasi incredulo con il naso in aria per un minuto buono. Per la mezz'ora successiva poi non feci che ripetermi le tre parole ‘non è possibile’, come un pappagallo al quale s’insegna a parlare. Non era possibile che esseri umani avessero mai prodotto un simile manufatto! Di fronte all’immane accumulo di blocchi rimanevo sbalordito come doveva essere la scimmia di Stanley Kubrik di fronte all'obelisco nero e lucido venuto dal futuro. Anni dopo, una mattina di buon’ora di un giorno di novembre, mi preparavo per la seconda volta a salire il pendio che dal centro abitato e dalle mura del grande perimetro di Gizeh porta fino alla base della piramide. Non ero entrato dal cancello turistico principale ma da un ingresso secondario non sorvegliato a circa duecento metri alla sua sinistra. Come mai questa scelta? E perché mi trovavo in quel luogo di mattina presto, due buone ore prima che la fiumana dei turisti cominciasse a sciamare dall'ingresso principale? Alcuni giorni prima ero stato invitato da Emad, mio conoscente e piccolo notabile del quartiere di Gizeh, a trascorrere un paio di giorni nella sua residenza. Dopo il mio secondo pernottamento tuttavia Emad disse che avrei dovuto traslocare perché lui doveva badare a sua madre (?!). Avrei alloggiato nella casa di un suo conoscente, una palazzina a 20 metri dal muro del perimetro delle piramidi, e a non più di 50 dall'ingresso principale che conduceva alla sfinge. L’amico di Emad seguiva le abitudini degli uomini delle classi bene del Cairo, cioè dormiva di giorno e viveva di notte. Quel mattino l’amico mi mostrò la mia camera, un ambiente polveroso e ingombro fino all’inverosimile di mobili, tappeti e cianfrusaglie. L’ultima volta che vi avevano fatto le pulizia doveva essere stato al tempo delle dinastie dei Tolomei! Per salire fino alla base della piramide l’amico mi consigliò di prendere l'ingresso secondario di servizio. Se qualcuno mi avesse fermato, avrei solo dovuto fare il suo nome. Poi si mise a letto e poco dopo cominciò a russare. Dalle finestre vedevo le piramidi e la sfinge. Uscii in strada, cercai e trovai l’ingresso indicato e cominciai a salire verso la grande piramide di Cheope. A metà ascensione udii una voce che mi chiamava dal basso. Una figura vestita del solito jellabah grigio laggiù gesticolava nella mia direzione e chiamava. Mi fermai disorientato. Di certo un funzionario si era accorto della mia infrazione ed ora stava salendo per sgridarmi o multarmi. Poi capii che doveva essere una guida improvvisata che aveva notato il turista solitario e voleva scortarlo. Ebbi un momento d’irritazione. Anche partendo all’alba non si riusciva a sfuggire al marketing selvaggio delle guide informali. Continuai a salire sperando che il seccatore se ne andasse. Ero deciso a stare in compagnia di Cheope a due, senza intermediari culturali. Salivo in fretta, ma la persona laggiù faceva altrettando, chiamando senza sosta. Un paio di volte mi girai verso il basso gridando 'no, no!', non volevo guide! Niente da fare. Attendere che mi raggiungesse, per poi spiegargli garbatamente che proprio volevo restarmene solo non sarebbe servito. Ero furioso. Poi mi venne un’idea. Mi arrestai rivolto verso la piramide, lentamente alzai le braccia al cielo, tenendole ben distese verso l'alto. Così facendo mi girai altrettanto lentamente verso il pendio in basso, là dove l'importuno in jellabah grigio vociava e gesticolava salendo verso di me. Mi piantai a gambe larghe, le braccia al cielo, il capo sollevato verso l’alto. In quella posizione mi
immobilizzai. Ero diventato un gran sacerdote del faraone, un fanatico officiante di qualche setta, oppure semplicemente un maniaco squilibrato. La voce là in basso si spense, non si udiva nemmeno calpestio o rotolio di ciottoli. Abbassai le braccia molto lentamente e guardai verso il basso. La mia 'guida' stava già tornando sui suoi passi, scendendo in fretta come era salita. Doveva aver pensato che non valeva la pena fare da balia a quello strano turista. Ripresi a salire, arrivai alla base della grande piramide e passai le tre ore successive a contemplare quell'incredibile accumulo di blocchi. Ricordai che Flaubert, quando visitò per la prima volta la piramide, quasi a esorcizzare lo sgomento del soprannaturale che gli'incuteva quella visione, si limitò a definire l'opera 'una montagna di pietre'. Una sera visitai l’amico/habibi Emad nella sua casa di Gizeh. Emad aveva dormito tutto il giorno ed era in procinto di alzarsi dal letto per l’ora di cena, che per lui era una colazione. Emad era molto grasso. Guardandolo ancora riverso sul suo letto mi parve di vedere un ippopotamo atterrato da una fucilata in una partita di caccia grossa. Poi la percezione cambiò e quando si alzò da letto era la luna piena che sorgeva. Insieme ad altri notabili e compagni di farniente di Gizeh, ci sedemmo a terra su tappeti e su cuscini della sala da pranzo, la madre e la sorella di Emad fecero la loro comparsa con vassoi colmi di carni alla griglia, fette di pane, tagine, grandi foglie di lattuga, pomodori, fuul, ossia faglioli lessati per ore in un recipiente a forma di pallone. Le donne depositarono i vassoi su di un tavolino lungo e basso al
centro dei tappeti e se ne andarono. Era una cena per soli uomini. C’era un solo bicchiere per otto persone, ma così voleva la tradizione. Al termine della cena cinque persone si congedarono e rimanemmo in tre, Emad, l’habibi che mi ospitava a Gizeh ed io. Quando uscimmo di casa era già buio.
A qualunque ora del giorno e della notte, in qualsiasi stagione dell’anno, sul Cairo grava una bruma fatta di pulviscolo e di fine sabbia del deserto in sospensione. Di giorno il pulviscolo è di colore giallo dorato, di notte diventa un'aurora boreale e assume la tinta di una fuliggine che su tutto si posa e tutto imbratta. Camminavamo per le strade polverose e scarsamente illuminate di Gizeh, l’escursione termica di novembre aveva sostituito il tepore del giorno con un’aria fredda e sporca. Emad non aveva saputo
chiarirmi quale fosse la meta di quella escursione notturna. Arrivammo in un luogo illuminato, da cui proveniva un brusio di voci. Era uno spiazzo aperto tra palazzine scure sul quale era stato eretto un grande padiglione con tende colorate. Entrammo, Emad salutò i presenti ed io mi guardai intorno. L’ambiente era illuminato a giorno con numerose lampade, sui tre lati della tenda-padiglione sedevano anziani in jellabah bianchi candidi e giacche europee scure indossate sopra la tunica. Alcuni fumavano shisha, altri sorseggiavano the da bicchierini, tutti sembravano in attesa di qualcosa. All’improvviso da un altro settore del padiglione un altoparlante inondò l’ambiente con i suoni discordanti di una musica sacra, allo strepito si unirono delle voci in coro, poi alcuni figuranti cominciarono una strana danza rituale da dervisci. I loro corpi cominciarono a dondolare, poi ad avvitarsi su se stessi e a roteare. Nelle mani dei danzatori comparvero delle fruste, che nell'avvitamento dei corpi atterravano sulle loro schiene. La danza sacra era la pantomima di una flagellazione, sull’esempio delle processioni penitenziali sciite. Gli ambienti dei padiglioni erano inondati da una profusione di luce, quasi si volesse scongiurare l’oscurità e la caligine che all’esterno incombeva sui falansteri cupi e sulle oscure periferie del Cairo. Ad un certo momento desiderai di essere altrove, sognai di starmene disteso in un hammam a 35 gradi di calore e di farmi massaggiare con una spugna ruvida. Se solo avessi potuto individuare l'hammam dove gli esploratori vittoriani Richard Francis Burton e John Hanning Speke si erano recati durante il loro soggiorno al Cairo! I due stavano per cominciare il viaggio di scoperta delle sorgenti del Nilo. In seguito Speke sostenne di averle individuate nel lago Nyanza/Vittoria, mentre Burton negò il fatto. Poi Speke sarebbe rientrato a Londra per presentarsi alla Royal Geographic Society presieduta da Lord Murchison, Burton sarebbe rimasto a godere degli agi e degli ozi sibaritici del Cairo. Uscimmo dal padiglione, Emad fermò un taxi, la nostra spedizione notturna presa un'altra piega. Emad
disse 'adesso ti mostro qualcosa di diverso’. Il taxi percorse strade immerse nell’oscurità, poi improvvisamente lo scenario cambiò. Il taxi ci aveva depositati ad una grande avenida illuminata, percorsa da file di automobili, dai marciapiedi pieni di gente. Non ricordo il nome di questi Champs
Elisées cairoti, ma ricordo la folla rumorosa, le vetrine sfavillanti dei negozi e dei caffè, la fiumana di luce che inondava tutto e tutti, e sembrava voler allontanare la caligine scura che avvolgeva il Cairo. Emad aveva voluto mostrarmi la faccia laica della città, quella che ricordava la capitale degli anni ’50, la città di Naguib Mahfouz e delle sue storie, la città che produceva film come avrebbe fatto in seguito Cinecittà. Roma! Ecco che cosa mi ricordava quel grande viale! Era la via Veneto romana inquadrata nella ‘Dolce Vita’! Nella sequenza surreale di quel viale che voleva illuminarsi a giorno, quale era il ruolo di Emad, del compare e di me stesso, tre perdigiorno svagati, nullafacenti e senza una meta fissa? Se mai un ruolo
avevamo, questo non poteva essere della 'Dolce vita', ma dei 'Vitelloni'!

La mamma

viaggio in Africa da circa 35 anni, ho percorso il continente in lungo e in largo. In Africa ho viaggiato, vissuto, lavorato, mi ci sono ammalato, stavo per rimetterci le piume per una grave malaria in Cameroun, ho vissuto il colpo di stato di Campaoré in Burkina Faso, ho litigato con i flics di Eyadéma in Togo, mi sono ingolfato in quell'inferno in terra chiamato Lagos, etc. eppure l'Africa è il continente che amo da sempre. Anni fa avevo pian piano sviluppato una mia personale fantasticheria su questo attaccamento ad una terra che sostanzialmente si divide in deserto, savana e foresta, come se la crosta terrestre di null'altro avesse bisogno di essere ricoperta. Mi trastullavo con l'idea che l'uomo si sente attratto dall'Africa perché questa è il grande contenitore da cui il genere umano si è originato. L’Africa è la grande sacca di liquido amniotico da cui l'umanità infante un tempo è uscita, ed è per questo che l'uomo bianco europeo con i piedi freddi vuole ritornare laggiù, al sud, nella calda placenta che un tempo lo accoglieva. Questa attrazione è irresistibile, è come la caduta di un corpo pesante dovuta alla forza di gravità che lo attrae verso un baricentro. Queste cose non le ho mai dette a nessuno per non far ridere. Oggi però, domenica 28 settembre 2008, sul Giornale leggo un articolo che titola: “Scoperto il segreto del mal d'Africa”. Cito alcuni brani estratti dall'articolo del giornalista Nino Materi:
“...ricercatori americani hanno svelato gli elementi che scatenano nel turista occidentale la nostalgia per il paese dei deserti e della savana: all'origine della passione per il paradiso selvaggio si cela il desiderio di tornare nel grembo materno...”
Appena ho letto questa frase sono corso in bagno a guardarmi allo specchio!
L'articolo continua:” lo studio è stato condotto da una équipe di ricercatori guidati dal professor Thomas Kinley della Psicology University della Pennsylvania. Al termine di una serie di prove condotte su 100 persone... gli esperti americani si sono trovati d'accordo su di un punto: ‘...il mal d'Africa è una vera e propria patologia che si manifesta con sintomi precisi, alla cui origine si cela l’atavico desiderio di tornare alla madre...la figura-chiave, la mamma...è lei l'immagine emblematica di ciò che di primordiale si nasconde nel nostro io più profondo, vale a dire il ricordo di quando eravamo al sicuro nel suo grembo. Uno stato di benessere totale che, crescendo, rimuoviamo dalla memoria senza però riuscire ad espellerlo completamente.... il desiderio di rientrare in quell'originale ‘status amniotico’ torna a galla prepotentemente...”L'Africa risponde perfettamente alle caratteristiche di grande madre, sottolineano i ricercatori statunitensi, e chi si avvicina a lei con questo stato d'animo diventa vittima predestinata del mal d'Africa”.
Sogno o son desto?

Una vacanza ascetica

Questa sera moltitudini di persone nel mondo scruteranno il cielo per attendere la comparsa della luna. L’apparire del primo spicchio luminoso di luna sarà il segnale della fine del Ramadan, e tutti i musulmani osservanti si recheranno nelle loro case per rompere il digiuno diurno. La mia conoscenza diretta della pratica del Ramadam risale al settembre di alcuni anni fa. Mi trovavo a Luxor, Egitto, a due giorni dall’inizio del mese sacro. 48 ore prima al Cairo il mio conoscente-habibi Emad, gran patron del quartiere di Gizeh, mi aveva prestato le chiavi del suo appartamento di Luxor. Erano solo due stanze più servizi, ma il loro decoro, così mi assicurava Emad, era prova della stima ch'egli aveva per me, suo 'habibi' italiano. Emad apparteva ad una influente famiglia di Gizeh, amava l'Italia e la sua gente, in passato si era recato a Perugia per studiare la lingua e al suo ritorno si vantava di averla imparata. Emad dormiva di giorno e viveva di notte. Al calare della sera usciva di casa e, in compagnia di altri maggiorenti di Gizeh, visitava le case di altre famiglie ’buone’ del Cairo. Il mio habibi egiziano aveva 35 anni, non praticava alcuna attività, tranne quella delle sue uscite notturne, e pesava duecento libbre. Su di un foglietto mi aveva vergato un indirizzo di Luxor, ed ora, entrato nell’appartamento al terzo piano di una palazzina nel quartiere di Karnak, mi guardavo intorno stupito. Gli ambienti erano maleodoranti, gli intonaci scrostati, il rubinetto della vasca del bagno perdeva, in cucina toccai un mobile e dagli interstizi uscirono tanti piccoli scarafaggi appena nati. Il secondo giorno di permanenza cominciò il Ramadan. Quella mattina uscii di casa e attesi un taxi collettivo ai bordi della strada lungo il Nilo che conduce al centro di Luxor. Il grande complesso dei templi di Karnak si trovava poco più all’interno oltre la strada, a meno di 1 km dalla palazzina dove abitavo. I marciapiedi, la strada, i dintorni erano semideserti, il Ramadan aveva trasformato la periferia di Luxor in un villaggio fantasma. Vicino alla fermata dei taxi vidi un grosso carro agricolo al quale l’animale da tiro era stato sciolto. Accovacciati sul carro c’erano 4 o 5 persone, forse agricoltori, chine intorno a qualcosa all’interno del carro. Mi avvicinai e vidi che stavano mangiando a 4 palmenti dischi di pane piatto, tagine, ‘fuul’ (fagioli lessati). Si ingozzavano letteralmente, mangiando in fretta come rifugiati. Erano le otto del mattino, erano fuori tempo massimo e il digiuno ufficiale era già cominciato all’alba!! Mi recai al centro di Luxor, visitai il tempio di Amon Ra, il porto fluviale, la piazza del mercato, entrai negli splendidi hotel turistici...Avevo cominciato il mio soggiorno di puro relax. Il Ramadan era generalmente osservato, la gente digiunava di giorno, ma con il calare del sole là dentro, nelle case, si mangiava, si beveva e si fumavano sigarette. Dopo avere visitato il tempio di Hatchepsut e la valle dei re dall’altra parte dl Nilo, con il passare dei giorni cominciai a voler fare altre esperienze. Una domenica un conoscente mi suggerì: ‘perché non vai alla tua ‘Kanisza'/chiesa, e parli con il tuo sant’uomo. Era una buona idea, così cominciai a cercare la chiesa cattolica. In Luxor ci sono molte chiese cristiane, e la prima che visitai fu una chiesa ortodossa. L’ingresso era sorvegliato da due soldati armati di kalashnikov, dall’interno proveniva un clamore di suoni e di voci. Mi trovai nel bel mezzo di una celebrazione, la navata era piena di gente che salmodiava e pregava, dall’altare si levavano volute d’incenso, alle pareti campeggiavano icone del Redentore e dei santi. Sembrava di essere a Bisanzio. Poi visitai una chiesa copta e una protestante, e alla fine approdai a quella cattolica. Gli ingressi di tutte queste chiese erano sorvegliati da militari armati. Nella chiesa cattolica la Messa era finita da un pezzo, ma sul sagrato si era radunata una compagnia chiassosa di persone di tutte le età. Ben presto si presentò il parroco, che parlava bene l’italiano, fui invitato nel suo studio, ci fu una lunga chiacchierata. Ad un certo punto, di botto, il parroco mi chiese se ero sposato, poi aggiunse che nella sua parrocchia c’erano molte signore... ma non finì la frase. Poco dopo, tornato sul sagrato, mi si presentò Aicha, una signora matura, che vestiva un tailleur, aveva una lunga chioma nera sciolta, parlava anche lei una specie d’italiano. Aicha aveva un carattere festoso, era incantata di parlare con me per sgranchirsi la grammatica italiana, mi spiegò che avrebbe voluto mostrarmi Luxor, invitarmi a casa sua e farmi conoscere suo marito. Andammo a casa sua e feci conoscenza con marito e figli. Più tardi Aicha mi chiese se, visto che non ero ammogliato, fossi interessato a fare conoscenza di una signora cristiana da sposare. Gulp. Aicha mi era stata inviata dal parroco! Non mi sto a dilungare nelle elucubrazioni che mi cominciarono in testa. Due ondate enormi s'infrangevano una contro l'altra, una era l’assurdità della proposta di Aicha, l'altra la mia curiosità. Avevo la mente era in burrasca. Dissi ad Aicha che ero interessato fare conoscenza di questa persona, ma senza impegno! Aicha parlò brevemente con il marito, poi uscimmo e con un taxi ci recammo in un sobborgo strapelato di Luxor, salimmo a piedi i tre piani di una palazzina non finita e Aicha bussò ad una porta. Aprì una signora ancora giovane, dalla pelle bianchissima. Ci sedemmo in soggiorno, Aicha le parlò con garbo. Fatma, questo era il nome della donna, parlava solo arabo, la sua famiglia era cristiana da generazioni, era vedova, viveva da sola e sbarcava il lunario per sé e per il figlio come meglio poteva. Il viso di Fatma aveva lineamenti delicati e occhi grigi che ogni tanto mandavano bagliori. Fatma era una bellezza. Dentro di me una vocina sussurrava: scappa, corri a gambe levate, saluta tutti e vai ad Aswan, fatti un bagno nel lago Nasser, rinsavisci. Ci congedammo da Fatma e ricordo che, scendendo le scale di quella palazzina sordida, mi venne in mente la battuta di un film di Woody Allen: ‘...l’amo perdutamente, per averla venderei mia madre ai beduini.’ Salutai anche Aicha, presi un taxi collettivo per tornare all’appartamento di Karnak. Addio Fatma, occhi di gazzella. Il giorno dopo, lunedì, sentii che ne avevo abbastanza di gente che digiunava di giorno e mangiava di notte, di chiese sorvegliate da militari, di matrimoni combinati in 15 minuti. Volevo cambiare aria, così decisi di tornare a visitare il complesso dei templi di Karnak, che del resto era forse a soli 800 m da dove abitavo. Oltre all’immenso colonnato interno, vera foresta di pilastri mastodontici, c’era qualcosa che mi aveva colpito e che volevo rivedere. Giunsi di fronte alla grande muraglia di mattoni di fango che circonda i templi, varcai l’ingresso e mi fermai a contemplare ancora una volta la grande figura del faraone Ramses III intagliata sulla parete a piramide tronca dell’ingresso. Il faraone è ritratto come un essere sovrumano che si libra a mezz’aria nel pieno di una battaglia. Con la sua mano sinistra afferra un nemico minuscolo ranicchiato ai suoi piedi, il suo braccio destro è levato in alto e sta per calare un fendente sull’avversario. Osservai l'immagine con l’aria che doveva avere John Keats di fronte alla sua urna greca. L’atto di colpire del faraone era imprigionato in eterno nella incisione della pietra. Il faraone sembrava volermi impartire un insegnamento che nasceva nella notte dei tempi, tanto tempo prima di tutti i monoteismi conosciuti. La divinità in cielo era il sole, il dio in terra era il faraone, per le debolezze del mondo e degli uomini (e delle donne) la cura più efficace era un vigoroso colpo di maglio, di quelli che tolgono di mezzo tutte le molestie.

La Baja California è lunga

Chi a Natale visita la penisola della Baja California, Messico (meglio, Méjico) può leggersi come la visitai io alcuni anni fa. Partii da Los Angeles con bus locale, passai a San Diego con un altro bus e varcai il confine Usa-Messico al checkpoint reso famoso ad es. dal film ‘Traffic’. Mi sentivo come Steve McQueen in fuga dagli USA, però in ‘Getaway’ l’eroe non espatria in quel punto, peccato. Il controllo di frontiera USA/Messico in quella località assomiglia più ad un casello autostradale della Milano-Bologna che a un confine di stato. La fiumana di autoveicoli in entrambi i sensi è interminabile e i doganieri guardano appena i documenti di chi transita. Subito al di là della frontiera c’è la cittadina di Tijuana. Il bagno della stazione dei bus di Tijuana era un hangar derelitto e umido, con un andirivieni incessante di messicani che usavano il locale anche per radersi, lavarsi le ascelle o scaracchiare. Sulla parete dei lavandini un cartello avvertiva ‘Prohibido limpiarse la nariz’…, avvisava cioè che era proibito sgorgarsi il naso nei lavandini pubblici. Cominciai a sentire un’ondata di buonumore, avevo voglia di ridere: finalmente ero in Messico, e là fuori mi attendevano interminabili avventure con tanti, tantissimi, simpaticissimi messicani. Ciò che più contava poi, ero uomo libero. Altri turisti viaggiano in branchi, clan familiari, maestranze in gita premio, bocciofile, condomini, parrocchie, rioni...io viaggio al singolare! Ero da solo, ma con i messicani! In Tijuana noleggiai un WV maggiolino 1200, un modello che in Europa è vecchio da decenni. A bordo del ‘escarabajo’ visitai la parte nord della Baja. La penisola ha scenari immensi, assolati, desertici. Ci sono ovunque distese sabbiose punteggiate da vegetazione secca, inondate dal sole e da una fragranza di erbe odorose o di lavanda. All'orizzonte si disegnano ovunque lontane catene montuose prive di vegetazione. Le spiagge del Pacifico hanno acque fredde, scure e agitate. I colori dominanti oltre all’azzurro del cielo sono il blu scuro dell’oceano e il giallo chiaro della terra. Percorrendo il solitario asse stradale da nord a sud incrociai un paio di monumentali motorhomes di turisti americani che tornavano a casa. Quelle gigantesche case mobili erano lanciate a tutta velocità sul nastro d'asfalto. Sul punto d’incrociarmi il conducente in segno di saluto sporgeva il braccio dal finestrino e azionava un clacson potente come la sirena antinebbia di una nave. Convenevoli yankee. Ero deciso a percorrere tutta quanta la penisola da nord a sud e ad arrivare fino a Cabo San Lucas, quindi a Tijuana restituii il maggiolino e m’imbarcai su di un normale bus di linea in direzione sud. Tuttavia avevo scordato come gli strapazzi imprevisti di un viaggio possano un poco alla volta trasformare il viaggiatore solitario e originale in un normale turista bisognoso di comodità. Quel misero bus di linea che arrancava sull'asfalto, che si fermava in tutti i villaggi e che caricava altri passeggeri pur essendo già pieno, già a Ensenada mi aveva rotto le ossa. Alla stazione dei bus decisi quindi di procurarmi un posto su di un potente, spazioso e comodo bus deluxe, con climatizzatore e tutti i comfort necessari. Certo fu un altro modo di viaggiare, ora si procedeva spediti sul percorso, tuttavia non avevo calcolato bene le distanze reali del tragitto dal confine di Tijuana fino al Cabo della estremità sud della penisola. La Baja California è talmente lunga che anche questo resoconto rischia di allungarsi troppo. Per farla breve, abbandonai presto anche il bus deluxe e feci ricorso…all’aereo. Ed ecco che il viaggiatore eccentrico era ridiventato un normale turista dalle braghe corte e dalla camicia a fiori. Quante occasioni d’incontro con i simpatici messicani andavano così perdute! Ripensai alla conversazione che feci con il conducente del primo bus di linea. Il messicano era grasso, aveva pelle color ambra, capelli e baffoni nerissimi, occhi altrettanto neri che mandavano lampi, quando rideva era impossibile non farsi trascinare nella risata. Ora però ero a Cabo San Lucas, località turistica famosa per chi fa pesca d’altura. Quella sera entrai nel locale ‘The giggling marlin’. L’insegna era un grande pesce marlin dipinto che sogghignava tirando all’amo un pescatore. Il locale era pieno di giovani yankees che di giorno facevano pesca d’altura, di sera bevevano birra e vociavano. Ad un certo punto risuonò un gong e in un angolo del grande bar vidi che si svolgeva una cerimonia scherzosa che celebrava l’inversione di ruoli pesce/pescatore. Un giovane yankee veniva issato con una grossa corda bianca legata intorno alle caviglie e rimaneva appeso come un marlin a testa in giù per un paio di minuti. Intorno a lui un putiferio di risa, frastuono di musica country e odore di birra. Quando ne ebbi abbastanza di Cabo San Lucas mi imbarcai sul traghetto per Puerto Vallarta, sulla costa ovest del Messico ‘continentale’. Durante la traversata, appoggiato alla paratia, avvistai un branco di delfini che saltava nelle acque blu scuro e seguiva la nave. Esclamai ‘dolphins’, ma un turista yankee al mio fianco mi corresse: ‘porpoises…’. Strano, a me parevano delfini.