sabato 13 dicembre 2008

Cameroun

Anni fa ero ecologo e appassionato difensore delle foreste tropicali. Amavo gli alberi e detestavo le compagnie del legname, per intenderci quelle che devastano ampie zone ad es. del bacino del Congo. Simpatizzavo per i verdi ultrà californiani, quelli che si fanno incatenare agli alberi, che inseriscono nei tronchi cunei metallici che fanno saltare la catena delle motoseghe, oppure si costruiscono una casetta sulla cima di alberi secolari, sperando che così i boscaioli non abbattano l’albero. Simpatizzavo anche per gli
ecologi australiani, quelli che si sdraiano sulle strade di collegamento da Darwin a Brisbane e sperano di bloccare i tir del legname. Rimuginavo sulla utopia e la teoria di legalizzare guerre fra stati il cui unico movente fosse la
difesa dei patrimoni forestali e non solo petrolio o diamanti. Avevo smesso di essere umanista per diventare naturalista, perché a mio vedere l’uomo non era che la muffa della terra che insidiava la grande, imponente, maestosa foresta tropicale africana. Questa per me rappresentava l’ultima e la più intensa fonte di emozioni che l'Africa, a parte le emozioni sahariane, può dispensare, e se c'è un continente sulla terra che regala le emozioni più forti, questo è l’Africa. All'inizio degli anni 90 mi trovavo in Cameroun, impiegato presso un'azienda italiana. Quando mi toccarono le ferie, presi l'auto aziendale più malandata che c'era e partii da Douala, sul golfo di Guinea, diretto verso la foresta pluviale del sud, quella che continua nel Congo Brazzaville e che geograficamente fa tutt’uno con il grande bacino verde del Congo/Kinshasa, che allora si chiamava ancora Zaire. Da Douala a Edéa il tragitto era su asfalto, costeggiato già da foresta secondaria. Poi toccai Yaoundé ma senza entrare in città, passai Bertoua, Batouri, Ndélélé. Poi l’asfalto terminò e cominciò una pista di laterite rossa che si addentrava in una foresta secondaria sempre più fitta che lasciava indovinare la
presenza imminente della foresta primaria. Durante una sosta in un villaggio feci conoscenza con due cooperanti francesi che m’invitarono a restare un giorno da loro. L’indomani era domenica, io volevo ripartire, ma una delle cooperanti mi chiese: ‘Tu veux pleurer?/vuoi piangere?’, una maliziosa anticipazione tutta francese che poi mi feci spiegare e che voleva dire: oggi è domenica, vieni con noi alla messa della chiesa cattolica, c’è la
messa cantata, e se non la conosci avrai una sorpresa. Andammo alla Messa, c’era un coro di donne e fanciulli, c’era un armonium e c’erano strumenti a percussione tipici del luogo. Il canto delle donne si levò per primo nella volta disadorna di quella bianca, spoglia chiesa cristiana, al canto si unì il suono dell’armonium, e quando il cuore già batteva forte si aggiunsero
i ritmi delle percussioni! La cooperante francese aveva ragione, quel groppo alla gola che non sapevo spiegare e quelle onde d'emozione che sempre più forti volevano straripare dagli occhi...! Ripartii sulla pista di laterite, che pareva una lunga ferita rossa nella foresta. Nel day-dreaming del viaggio interminabile sulla pista sognavo di essere un oggetto che affonda a sud per forza di gravità. Ero come un essere che ritorna nella placenta del continente africano da cui aveva avuto origine. E poi quei pensieri sulla foresta che ora si ergeva scura e densa ai bordi della pista! Arrivai a Yokadouma, ultimo avamposto del Cameroun prima del confine con il Congo Brazzaville. Feci conoscenza con Daboud, un libanese che gestiva una segheria del posto (grrr). Daboud mi invitò alla sua casa, mangiammo e bevemmo, e quella sera mi chiese e richiese di restare con lui qualche giorno. Daboud viveva solo in quella casa, ma aveva una piccola legione di lavoranti, un’altra piccola schiera di inservienti, cuoco, guardiano, autista etc, nonché un’amante che dal villaggio veniva a trovarlo una volta alla settimana (!). Daboud aveva il pallino per gli italiani, adorava le auto e la
moda italiane e gli piaceva la lingua italiana. Progettava di lavorare ancora qualche anno a Youkadouma, poi prendere i CFA guadagnati e di andare in Italia, comprare un’automobile italiana, tornare in Libano al volante di spider tutta lustra, sposarsi e non tornare mai più in Africa. Daboud però non era mai stato in Italia, e voleva sapere da me com’era il mio paese che lui amava tanto senza averlo mai visto. Io gli dissi che ero venuto fin lì per conoscere la foresta, per vivere nella foresta, per non avere altri occhi
e altre orecchie se non per la grande foresta pluviale del Cameroun. Le nostre divesità di vedute erano solo apparenti, perché la nostra conversazione procedeva fitta e inesauribile anche con il passare dei giorni. Dei giorni e delle notti. Daboud era un gaudente, un viveur, ed io da parte mia non faticavo molto a stargli dietro. C’erano le festicciole in casa, con fritture miste, birra (la solita guinness scura) e whisky che ci piaceva bere ‘dur’, per dimostrare a noi stessi di essere i duri della foresta di Yokadouma. La musica era il Makossa del Cameroun e il congorumba dello Zaire. Nelle festicciole in casa e nella locale discoteca altro non si ascoltava che Petit Pays, M'Bilia Bel, Tabu Ley, Sam Mangwana, Oliver N'Goma,
Franco, Bopol, Monique Séka, Touré Kunda e Fela Kuti. Eravamo i soli due bianchi nel raggio di chissà quanti km, e soprattutto! eravamo circondati dai simpatici neri del Cameroun, gentili, umoristici, musicali, esilaranti. Questa è l’Africa più intensa che mai si possa sperimentare.

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