martedì 9 dicembre 2008

Viaggiatori clandestini

Kartung, Gambia, 19 novembre 2008
mi trovo sulla veranda di un alloggio turistico affacciato sulla costa atlantica del Gambia, Africa Occidentale. La terrazza dell’alloggio ha pareti, pavimento e balaustra intonacate in calce bianca tirata a lucido. Verniciate di bianco sono anche le sedie e le tavole di metallo destinate agli ospiti dell'albergo. Su di un tavolino è posato un libro che mi propongo di leggere, e che in realtà non ho nemmeno aperto. Il bianco dell'intonaco lucido che ricopre costruzioni e arredi rende l’ambiente simile ad una enorme torta di gesso. Ho l’impressione di trovarmi in una scenografia alla Watteau del ‘Così fan tutte' di Mozart, senonché poi decido che la coreografia marina non ha nulla di mediterraneo. I frangenti vanno a morire su di una spiaggia grigia come ce ne sono tante in Africa Occidentale, grigi sono anche il mare e il cielo, come di consueto in queste zone dell'Africa. Appoggiato alla balaustra di gesso e guardando all’intorno vedo quindi solo tre colori, il verde cupo della boscaglia, il grigio della sabbia e l’altro grigio del mare. Il giorno è livido, nell’aria rimane sospeso il pulviscolo dell’harmattan, vento del deserto mauritano che soffia anche in questa stagione. Il sole è appeso sull’orizzonte e sembra sul punto di caderci sopra come un uovo marcio. In questa zona del Gambia meridionale la costa corre rettilinea verso nord per un lungo tratto, poi disegna un angolo retto verso l’oceano e termina in una striscia di terra sottile come la lingua di un rettile che lambisce l’acqua. Verso sud la spiaggia è priva di palme, coperta com’è solo da una arborescenza di verde chiaro che sembra voler raggiungere l’acqua. Ad un paio di chilometri lo sguardo indovina l’ansa descritta dal fiume Halahin che segna il confine con la regione della Casamance del Sénégal. Mi rendo conto che lasciando la capitale Banjul e scendendo tanto a sud fino a questo albergo sulla spiaggia, in realtà non ho fatto altro che arrivare ad un capolinea. Fine del viaggio. Se vorrò proseguire verso sud dovrò prima varcare una frontiera. Mi ritrovo a pensare che l’altra ragione più forte che mi impedisce di proseguire verso est è che da quella parte c'è l'oceano atlantico. In presenza di elementi tanto primordiali quali il vento, l’acqua e la sabbia, è piacevole pensare che anche i miei ragionamenti possano diventare arcaici e ingenui come quelli di un infante. Questo insediamento turistico ha il nome originario mandinka di 'Boboi', che poi è diventato ‘Boboi Beach Lodge’. Nonostante il nome ora evolutosi ad essere disneyano che ricorda un resort della Florida, questo luogo altro non è l'insieme di una dozzina di bungalow a pianta rotonda sormontati da tetti in frasche di palma, decenti riproduzioni turistiche delle dimore tipiche della etnia ‘diola’ del Gambia e della bassa Casamance. Ora sulla terrazza dove mi trovo un tale mi si avvicina, sorride di un sorriso da coccodrillo e domanda qual’è il mio nome. E' un giovane gambiano di forse venti anni, indossa una camicia verde variegata di altri colori vivaci, sulla nuca ha una treccia da rastafari, ai polsi porta braccialetti di metallo lucido. Segue una conversazione di cui riporto solo la parte del giovane, che è poi costituita per lo più da domande e tentativi imbonitori. ‘prima volta in Gambia?... tuttavia una guida come me può esserti utile ... posso almeno mostrarti il mio business... sono un uomo d’affari di provata moralità... se non hai moglie posso procurartene una...’ il giovane sembra deluso dalle mie risposte, promette che tornerà più tardi e si allontana. Per questo viaggio come di consueto sono partito da solo, ma ora mi sento accompagnato da un moltitudine di presenze che non sono persone ma immagini, suoni e parole. Sono i fantasmi dannati dei ricordi letterari che si sono infilati a mia insaputa nel mio bagaglio, ed ora ne escono come tanti spiriti folletti. Ora non mi libero dalla fantasia di essere
arrivato in questo luogo via mare, a bordo di un improbabile battello a vapore, sullo stesso battello che portò Charles Baudelaire verso questi tropici. Ora l'imbarcazione del poeta attracca ad un molo, i viaggiatori sbarcano e si dileguano nei villaggi e nella boscaglia dell’interno, ma il poeta resta a bordo. Appoggiato alla paratia del ponte egli osserva la corsa dei frangenti verso la spiaggia orlata di palme, si arrotola un altro dei suoi spinelli gonfio della mistura dell'oblio composta di fiori del male e ricomincia a fumare. Il vate della dimenticanza e dello spleen decide che non scenderà mai a terra, la realtà putrescente della costa guasterebbe senza rimedio il suo sogno tropicale. Cerco di scacciare il fantasma letterario di Baudelaire, guardo al mare e alla carica incessante dei frangenti verso la costa, a quell'inutile assalto dell’oceano che s'insabbia con monotona regolarità. Ed ecco che compare il piroscafo 'Admiral Bragueton', quello che trasportava Ferdinand Céline verso queste spiagge. In fuga dall’Europa devastata del primo dopoguerra, Céline sbarcò ad un porto di questi paraggi e sparì nella boscaglia, per continuare il suo strano viaggio al fondo della notte. Invece di guardare il mare ora cerco di ascoltarlo solamente. Le onde però ora sono un tuono cupo come una salva di cannone. Ed ecco che anche la visione cambia, il vascello ora è una pesante pinazza e a bordo c’è Marlowe, il personaggio-chiave di un paio di romanzi di Conrad. Nella sua navigazione lungo la costa dell’Africa Occidentale il battello di Marlowe incrocia una nave da guerra inglese ancorata ad un miglio dalla costa. La nave espone il suo fianco alla costa e spara bordate d’artiglieria verso un villaggio costiero presidiato da indigeni ribelli. Il commento di Conrad è: '...una nave che bombarda un continente...'.
Ma com'è fatto il Gambia? Questo paese ha una linea costiera di soli 70 chilometri ed uno stretto entroterra vermiforme che si insinua nel continente come il parassita nel corpo di un albero secolare. Questo lembo di terra è percorso da est ad ovest dal fiume Gambia, che attraversa all’inizio grandi distese di savane gialle, si riveste del grigio dei boschi di mangrovie e sfocia poi come controvoglia nell’Atlantico, con una differenza di altitudine tra sorgenti e foce di pochi metri. Troppo poco perchè le maree atlantiche non siano tentate di ricacciarne l’acqua dolce e di penetrare nel suo corso per oltre cento chilometri. L’idea di risalire il fiume Gambia su di una lancia a motore mi fa ripartire la fregola letteraria del personaggio Marlowe che risale il maestoso fiume Congo a bordo di una chiatta a vapore. Marlowe ha avuto l'incarico dalla sua compagnia coloniale di rintracciare l'agente Kurtz, le cui tracce si sono perse da qualche parte all'interno di una foresta dal cuore di tenebra. Faticoso e ossessivo è stato quel rimontare una corrente color terra cosparsa dei detriti vegetali rigettati dalla boscaglia. Ai lati del fiume si ergono le muraglie della foresta pluviale primaria, chiusa in se stessa e offesa da quella intrusione. Secondo Marlowe/Conrad, sulla mappa dell’Africa il fiume Congo disegna una serpe che tiene la coda nascosta nelle foreste dell’interno e le fauci spalancate nell'Atlantico. Non so proprio che cosa abbia il Congo in comune con il Gambia se non il fatto di essere entrambi fiumi oggetto di stravaganti ricerche di esploratori vittoriani e viaggi onirici di romanzieri del primo novecento. Riaprendo gli occhi sulla realtà di questo pomeriggio stralunato vedo che l’harmattan continua a lasciare sospeso nell'aria il suo pulviscolo sahariano e che il sole è moribondo ma non ne vuole sapere di tramontare. In Africa il tempo scorre
lento ma in modo irregolare. A volte gli istanti che compongono una giornata come questa sono troppo lenti, il tempo s’intasa e poi si ferma, l’Africa torna ad essere ciò che è sempre stata, uno stato d'animo ancorato alla preistoria.

Buba Jammeh

Kartung, Gambia, 19 novembre 2008
Nella iterazione ossessiva di deserto, savana e foresta, i soli tre stati fisici che l’Africa conosce, Alberto Moravia vede l’annullamento della categoria dello spazio africano, e di conseguenza anche di quella del suo tempo. Il viaggio africano diventa dunque per lo scrittore non solo la fine dello spazio, ma anche la fine del tempo, e quindi il ritorno alla preistoria. Per Moravia l’ipotesi non può che trovare conferma nella visione degli scenari alluvionali da tregenda pleistocenica di grande parte dell’Africa saheliana e delle savane. Ma ora, sulla terrazza del Boboi Lodge di Kartung, osservando un gecko che s'immobilizza davanti ad una mosca verde brillante per un minuto intero e poi se la ingolla in un lampo, penso alle accelerazioni impensabili di cui è capace il tempo in Africa. Il gecko ingoia la preda e poi annuisce e annuisce, e m'insegna che il tempo è comprimibile come una molla, che il tempo è una materia che qui ha poco valore e significato ma che l’animaletto riesce a modellare per il suo scopo, quello di nutrirsi. Ora osservo che il giardino del lodge, con i suoi arbusti fioriti, è habitat di grandi sciami di insetti, che a loro volta attirano i gecko e varie specie di lucertole giganti, oltre ad una varietà senza numero di uccelli.
Mentre sulla terrazza del lodge aspetto il calare del sole, fanno la loro apparizione altri personaggi, quello di Buba Jammeh e della sorella Amina Jammeh, figlia dello stesso padre e della stessa madre. Perché in Africa è necessaria questa precisazione? Perché ‘sorella’ o ‘fratello’ come termini unici sono indicazioni vaghe che si riferiscono alla sola grande famiglia estesa africana, che può comprendere anche decine di persone o anche un intero clan. Buba è un giovane mandinka di 24 anni, ha lunghe braccia e gambe, ha pelle liscia, lucida e glabra. Noto che Buba soffre di uno strabismo che non esito a definire di Venere se penso a quanto di femmineo e di nobile c’è nel corpo e nel portamento di Buba. Da dove viene tutta la nobiltà dei suoi gesti e del suo parlare? Per ora Buba mi informa che lavora in questo albergo come contabile, un lavoro umile e mal pagato. In seguito verrò a sapere che solo Buba è in grado di capire ciò che va o che non va bene nella gestione dell’albergo. Se qualche conto non torna, Buba ne sa la ragione. Il giovane Buba non è solo contabile, ma capisce le cose della tecnica e dell’amministrazione, a Buba si rivolge la gente quando un macchinario ha un guasto. Se un turista europeo è contento o scontento, solo Buba ne conosce il vero motivo, perchè Buba vede nella mente dei 'toubab', degli ospiti europei che pernottano al lodge. Buba è una persona gradita e ricercata da tutti, ed è quindi l'anima del posto, eppure il giovane occupa solo una posizione subalterna e mal retribuita. Amina Jammeh è una giovane donna mandinka dalla età indefinibile. Amina ha un collo sottile come lo stelo di un calice di ebano, una testa nobile e perfetta, labbra
pneumatiche e occhi bistrati di nero, affetti dallo stesso leggero strabismo del fratello Buba. Ora il tempo che mi rimane per osservare distintamente l’area piantumata di fiori, il palmeto che orla la spiaggia, il mare e, depositata in questo scenario pigramente tropicale, la splendida figura di Amina Jammeh, sta per terminare. Il sole ha deciso che dopo l’apparizione di Amina non c’è più nulla di interessante da mostrare e si decide a tramontare tuffandosi nell’Atlantico. Fra poco l’oscurità nasconderà gli immancabili particolari più ordinari e banali presenti in questo scenario, mentre i lampioni del giardino illumineranno i contorni degli oggetti più nobili, come il profilo altero delle palme. Più tardi compariranno basse sull’orizzonte verso ovest due stelle che brillano più delle altre. Le due stelle si appenderanno sul cielo in posizione perfettamente sovrapposta una sull’altra e la loro luce si rifletterà sulla superficie del mare. Sarà Amina a spiegarmi che quei due corpi celesti comparsi con una sincronia ammirevole in realtà sono due pianeti. A differenza di quella delle stelle lontane, infatti, solo la luminosità intensa di un pianeta è in grado di riflettersi sul mare. Dopo avermi dato questa lezione di esotica astronomia, Amina si congeda da me e si allontana. Osservo il suo profilo da anfora minoica e il suo ancheggiare pigro e ballonzolante, che credo innocente e che sicuramente è ingenuo. Ora ricordo che solo le donne africane sanno istintivamente ballare quando camminano, e che la loro libertà al di fuori e lontano dalle corvées ingrate della loro vita domestica altro non è che uno splendido incedere su di una invisibile passerella. Qui termina la mia prima giornata all'albergo Boboi di Kartung, all'estremo sud del Gambia. Ora il giardino è immerso in un buio di pece, quindi salgo gli scalini che mi portano ad una terrazza sopraelevata di legno, coperta dal solito tetto di frasche di palma, dalla quale potrò continuare ad osservare il mare. L'ingresso della terrazza è sorvegliato da una grande maschera africana di legno scuro appesa alla parete. La maschera ha una espressione da demonio delle savane e di propiziatorio non promette nulla. Gli occhi dell’apparizione sono due fessure chiuse, il naso è rincagnato e la linea orizzontale della bocca socchiusa mostra due denti canini. Più che un feticcio benigno che allontana gli spiriti cattivi, la maschera sembra quindi essere, essa stessa, la manifestazione pittorica e scultorea di qualche spirito malvagio. Mentre i misteri di questo viaggio e di questi luoghi si sono accumulati, mentre continuo a farmi domande sulla vita di Buba e di Amina, e sulla strana
collocazione nel cielo dei due pianeti sovrapposti, la maschera sembra volermi dire che una risposta ai miei interrogativi proprio non l’avrò. Questo totem-sentinella posto all’ingresso della terrazza del Boboi lodge mi sta avvisando che ci sono cose in Africa che non è necessario che io sappia.

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