martedì 16 dicembre 2008

Marocco del sud

Nel maggio 2007 ebbi l’occasione di visitare i territori dell’ex Sahara spagnolo, quelli che per intenderci costituivano una colonia della Spagna fino al 1976 (a proposito, il film Guerre stellari è del 1975, nella luna c’erano andati già 7 anni prima, ma nel 1976 la Spagna ancora aveva una colonia. Gusto retrò? no, piuttosto l’interesse rappresentato da inestimabili giacimenti di fosfati, il cui sfruttamento avrebbe fornito al nuovo stato indipendente del Sahara la valuta necessaria per decollare. Quando la Spagna concesse l’indipendenza al paese, il Marocco e la Mauritania si spartirono e si annessero la ex colonia. Le popolazioni autoctone, i ‘Sarahui’ al posto dell’indipendenza dagli spagnoli si videro arrivare in casa marocchini e mauritani. Come spesso succede nelle politiche fantasiose, cambiano i suonatori ma la musica rimane la stessa. I Sarahui in parte rimasero sul territorio, altri crearono basi di guerriglia oltre il confine algerino intorno alla città di Tindouf, altri ancora si misero a tentare la
traversata del tratto di mare che li separava dalle Canarie. Da allora le isole spagnole sono diventate altrettante Lampeduse nell’Atlantico. Lo scenario è simile, solo che da noi gli scafisti libici sono ben organizzati, mentre dalle coste saharui partono imbarcazioni malconce. L’isola più vicina è Lanzarote, ma molte ‘pateras’ arrivano anche a Tenerife. Tenerife! L’isola magica degli
aborigeni Guanches, dove il naturalista Humboldt che vi fece sosta nel suo viaggio verso il Sudamerica rimase ammaliato dalla bellezza della vallata a nord, per intenderci quella che si stende giù fino alla costa dopo avere superato il picco del Teide. Humboldt disse di non aver mai visto nulla di più bello. Ora Tenerife è un ghetto turistico, Los Cristianos a sud una colata di cemento Portland senza interruzione, i tinerfegni sono stufi di questo tipo di sviluppo e non amano lo straniero. Nel corso del mio viaggio in terra ex-Sarahui visitai Tarfaya, cittadina costiera nel punto più occidentale
del territorio e a poche miglia marine da Fuerteventura. E’ da questa località che partivano e partono molte delle imbarcazioni d’emigranti. A questo punto mi viene da pensare: il Sarahui che riesce ad approdare alle Canarie, in quanto ex suddito di sua maestà di Spagna, non avrebbe diritto di diventare automaticamente cittadino spagnolo? invece le procedure di accoglienza sono tutte in salsa Lampedusa. I profughi che sbarcano vengono rifocillati, sottoposti a cure mediche e poi o rispediti al mittente o lasciati sul territorio spagnolo come esuli o clandestini tollerati. Di cittadinanza non se ne parla. Visitai anche Dakhla, la vecchia Villa Cisneros, insediamento nell’estremo sud a un passo dal confine mauritano. Per arrivarci si percorre una pista asfaltata, che s’infila tra un deserto giallo ocra da una parte e l’oceano atlantico dall’altra. La costa è a falesia color ocra-giallo smunto ed è a picco sul mare. A tratti si aprono distese di spiagge sabbiose che non vogliono finire mai.L’oceano è sempre grigio e le onde sono furiose, il vento che soffia in permanenza forma frangenti che sembrano una carica di cavalleria. Ci sono tratti lunghissimi di nulla fatto di deserto e oceano, poi
all'improvviso ai bordi della strada si materializzano costruzioni in cemento con un piccolo patio, un recinto di capre, dei cammelli che ruminano chissà cosa. Sono le 'gargotes' che vendono pesce fritto appena pescato e carne di capra alla griglia. Dopo il pasto si riparte, di ritorno sul nastro di asfalto si ha l'impressione di essere catapultati in avanti come costretti dal nulla di oceano e deserto che stringe ai fianchi. Ecco infine Dakhla, l'ultima oasi prima della Mauritania!!!

Haiti

Mi trovavo nel sud di Hispaniola, nella regione di Pedernales, città prossima al confine con Haiti. Un ufficiale dominicano mi invitò ad una breve visita oltre frontiera, della durata di poche ore, senza passare dogana o mostrare passaporto. Insomma una infiltrazione in territorio straniero da semi-illegale! La proposta suonava molto 'il nostro agente all'Havana' e mi attirava. Lasciata l'auto in custodia sicura (i posteggiatori non mancavano) passammo a piedi la frontiera in una zona lontana dalla dogana, dove non c'era nemmeno un filo spinato, ma solo siepi di cacti spinosi! Dopo alcune
centinaia di metri entrammo in un altro mondo. La terra era di laterite rossa come in Gabon, le acacie basse erano quelle del Serengeti, le prime capanne che comparivano non erano più casette coloniali spagnole, ma assomigliavano a dei kraal zulu. Non eravamo più in una ex colonia spagnola, eravamo in Africa! Quel punto di transito di frontiera era un pertugio segreto, io ero diventato un Alice di nuovo genere e quello che stavo per visitare era un paese della meraviglia. Mentre la nostra visita proseguiva e ci addentravamo nel primo villaggio haitiano che io avessi mai visto, la mia meraviglia si trasformò presto in costernazione al vedere le condizioni misere in cui vivono gli haitiani. Il villaggio si chiamava
Anse-à-Pitre, nome che i dominicani dall'altra parte del confine
deformavano in 'Sapito' = `Ranocchio'. Ad un certo punto l'ufficiale
dominicano che mi aveva invitato a questa strampalata escursione si
rivelò per quello che era in realtà, cioè per un faccendiere in trasferta.
Questa persona altri non era infatti che un mediatore di lavoranti haitiani,
un caporale incaricato di contattare il suo omonimo haitiano, capo-villaggio o padrino locale, per concordare quanti manovali o agricoltori sottopagati potessero esfiltrare oltre confine alla prossima bisogna. In un magazzino polveroso del villaggio vidi pile di sacchi bianchi accatastati. Era riso donato dagli Usa ad Haiti, sacchi di iuta bianchi con sopra la stampigliatura azzurra 'donazione USA'. Era riso pregiato americano che anziché essere distribuito alla popolazione veniva venduto oltre confine per ricavarne pesos dominicani. Sulla via del ritorno cercavo di convincermi di non essere stato coinvolto a mia insaputa in una schifosa operazione di mercificazione di esseri umani, ma soltanto di esserne stato sfiorato.

sabato 13 dicembre 2008

Israele

Il 28 settembre 2000 in Israele il premier Ariel Sharon ebbe l´idea stravagante di fare una passeggiata sulla spianata delle moschee, nella città
vecchia di Gerusalemme. Questa zona è sacra per ebrei e musulmani, questi
ultimi si sentirono provocati dal gesto di Sharon e cominciarono a protestare. In quello stesso giorno mi trovavo a Tel Aviv, il mio soggiorno nel paese volgeva al termine e c'era un aereo che non avevo nessuna voglia di prendere. Non volevo lasciare quei luoghi troppo in fretta, quindi decisi di passare via terra al Cairo e d´imbarcarmi da lì. Il giorno dopo alla frontiera di Eilat notai molti turisti israeliani che dal Sinai rientravano a casa. Era un
affollamento inconsueto e aveva l´aria di un rientro precipitoso da chissà
cosa. Nel bar della dogana conversavo con un ufficiale israeliano, che
all´inizio parlò di questo e di quello, poi accennò a quello che succedeva
da questa e da quella parte del confine, e alla fine mi raccontò senza mezzi termini ciò che temeva sarebbe accaduto nei giorni seguenti. Fu un discorso un po´ strano e non gli diedi molta importanza. Passai il confine e me ne andai. Quel giorno era l´inizio della seconda intifada, che nei 4 anni successivi si espresse contabilmente con 3300 palestinesi e 900 israeliani morti ammazzati. Una `nakba´, catastrofe, in piena regola.

Cameroun

Anni fa ero ecologo e appassionato difensore delle foreste tropicali. Amavo gli alberi e detestavo le compagnie del legname, per intenderci quelle che devastano ampie zone ad es. del bacino del Congo. Simpatizzavo per i verdi ultrà californiani, quelli che si fanno incatenare agli alberi, che inseriscono nei tronchi cunei metallici che fanno saltare la catena delle motoseghe, oppure si costruiscono una casetta sulla cima di alberi secolari, sperando che così i boscaioli non abbattano l’albero. Simpatizzavo anche per gli
ecologi australiani, quelli che si sdraiano sulle strade di collegamento da Darwin a Brisbane e sperano di bloccare i tir del legname. Rimuginavo sulla utopia e la teoria di legalizzare guerre fra stati il cui unico movente fosse la
difesa dei patrimoni forestali e non solo petrolio o diamanti. Avevo smesso di essere umanista per diventare naturalista, perché a mio vedere l’uomo non era che la muffa della terra che insidiava la grande, imponente, maestosa foresta tropicale africana. Questa per me rappresentava l’ultima e la più intensa fonte di emozioni che l'Africa, a parte le emozioni sahariane, può dispensare, e se c'è un continente sulla terra che regala le emozioni più forti, questo è l’Africa. All'inizio degli anni 90 mi trovavo in Cameroun, impiegato presso un'azienda italiana. Quando mi toccarono le ferie, presi l'auto aziendale più malandata che c'era e partii da Douala, sul golfo di Guinea, diretto verso la foresta pluviale del sud, quella che continua nel Congo Brazzaville e che geograficamente fa tutt’uno con il grande bacino verde del Congo/Kinshasa, che allora si chiamava ancora Zaire. Da Douala a Edéa il tragitto era su asfalto, costeggiato già da foresta secondaria. Poi toccai Yaoundé ma senza entrare in città, passai Bertoua, Batouri, Ndélélé. Poi l’asfalto terminò e cominciò una pista di laterite rossa che si addentrava in una foresta secondaria sempre più fitta che lasciava indovinare la
presenza imminente della foresta primaria. Durante una sosta in un villaggio feci conoscenza con due cooperanti francesi che m’invitarono a restare un giorno da loro. L’indomani era domenica, io volevo ripartire, ma una delle cooperanti mi chiese: ‘Tu veux pleurer?/vuoi piangere?’, una maliziosa anticipazione tutta francese che poi mi feci spiegare e che voleva dire: oggi è domenica, vieni con noi alla messa della chiesa cattolica, c’è la
messa cantata, e se non la conosci avrai una sorpresa. Andammo alla Messa, c’era un coro di donne e fanciulli, c’era un armonium e c’erano strumenti a percussione tipici del luogo. Il canto delle donne si levò per primo nella volta disadorna di quella bianca, spoglia chiesa cristiana, al canto si unì il suono dell’armonium, e quando il cuore già batteva forte si aggiunsero
i ritmi delle percussioni! La cooperante francese aveva ragione, quel groppo alla gola che non sapevo spiegare e quelle onde d'emozione che sempre più forti volevano straripare dagli occhi...! Ripartii sulla pista di laterite, che pareva una lunga ferita rossa nella foresta. Nel day-dreaming del viaggio interminabile sulla pista sognavo di essere un oggetto che affonda a sud per forza di gravità. Ero come un essere che ritorna nella placenta del continente africano da cui aveva avuto origine. E poi quei pensieri sulla foresta che ora si ergeva scura e densa ai bordi della pista! Arrivai a Yokadouma, ultimo avamposto del Cameroun prima del confine con il Congo Brazzaville. Feci conoscenza con Daboud, un libanese che gestiva una segheria del posto (grrr). Daboud mi invitò alla sua casa, mangiammo e bevemmo, e quella sera mi chiese e richiese di restare con lui qualche giorno. Daboud viveva solo in quella casa, ma aveva una piccola legione di lavoranti, un’altra piccola schiera di inservienti, cuoco, guardiano, autista etc, nonché un’amante che dal villaggio veniva a trovarlo una volta alla settimana (!). Daboud aveva il pallino per gli italiani, adorava le auto e la
moda italiane e gli piaceva la lingua italiana. Progettava di lavorare ancora qualche anno a Youkadouma, poi prendere i CFA guadagnati e di andare in Italia, comprare un’automobile italiana, tornare in Libano al volante di spider tutta lustra, sposarsi e non tornare mai più in Africa. Daboud però non era mai stato in Italia, e voleva sapere da me com’era il mio paese che lui amava tanto senza averlo mai visto. Io gli dissi che ero venuto fin lì per conoscere la foresta, per vivere nella foresta, per non avere altri occhi
e altre orecchie se non per la grande foresta pluviale del Cameroun. Le nostre divesità di vedute erano solo apparenti, perché la nostra conversazione procedeva fitta e inesauribile anche con il passare dei giorni. Dei giorni e delle notti. Daboud era un gaudente, un viveur, ed io da parte mia non faticavo molto a stargli dietro. C’erano le festicciole in casa, con fritture miste, birra (la solita guinness scura) e whisky che ci piaceva bere ‘dur’, per dimostrare a noi stessi di essere i duri della foresta di Yokadouma. La musica era il Makossa del Cameroun e il congorumba dello Zaire. Nelle festicciole in casa e nella locale discoteca altro non si ascoltava che Petit Pays, M'Bilia Bel, Tabu Ley, Sam Mangwana, Oliver N'Goma,
Franco, Bopol, Monique Séka, Touré Kunda e Fela Kuti. Eravamo i soli due bianchi nel raggio di chissà quanti km, e soprattutto! eravamo circondati dai simpatici neri del Cameroun, gentili, umoristici, musicali, esilaranti. Questa è l’Africa più intensa che mai si possa sperimentare.

Giava

Durante una visita in Indonesia, percorrevo in autobus il tratto Jakarta – Bandung (Giava). Il mezzo era sovraccarico di passeggeri con bagagli, il tragitto era lungo e faticoso, il caldo male sopportabile. Fu così che quando cominciò un tentativo di conversazione tra me ed una giovane donna indonesiana seduta accanto mi sentii sollevato. Peccato che la ragazza conoscesse solo 5 parole d'inglese, fra cui la parola ‘delicious’, che ripeteva spesso. Io allora controbattevo con la parola 'jalan-jalan', termine jolly e furbesco che va bene in molte situazioni. Il bahasa indonesian è un lingua povera, e un termine può voler dire molte cose. E' anche una lingua molto semplice, ad esempio: orang è uomo, orang-orang è il plurale uomini. Ora, 'jalan-jalan' si usa per indicare 'viaggiare, camminare, passeggiare, svagarsi, andare a zonzo, essere in libera uscita...' Quando la ragazza mi sentì pronunciare la parola-jolly, la conversazione subì un'accelerata, e così continuammo a base di 'delicious jalan-jalan'. Io pensavo che era strano che una donna sola in un paese musulmano fosse incline a conversare con un uomo venuto da chissà dove. Ma tant’è, il bus era pieno di gente…La giovane donna mi fece capire che sarebbe stata lieta di farmi da guida (gulp) nella zona di Bandung dove lei abitava ed io accettai. Scendemmo alla stazione bus di Bandung e cominciammo quella strana escursione. La ragazza come ho detto parlava poco o niente, così indicava spesso con il dito cose da vedere e comunque mi sorrideva spesso. Così spesso che ad un certo punto mi domandai quali altre accezioni e significati a me sconosciuti poteva avere l'espressione 'jalan-jalan' nel bahasa indonesian così povero di vocaboli. Il fatto è che a pronunciare quella frase era donna indonesiana giovane, dagli occhi che ridevano e dai capelli nerissimi, e proprio questa creatura mi aveva fatto un invito inaspettato. Scacciai i pensieri strani e mi dissi che la mia accompagnatrice era una normalissima ragazza di buona famiglia che si era offerta solo per una forma di curiosità per il turista di mostrarmi Bandung, dove sia detto per inciso non c’è niente da vedere. Calava la sera, io dissi alla donna che ero incantato della sua cortesia, che mi spiaceva molto di lasciarla ma che dovevo andare all’hotel indicato dalla guida Lonely Planet. Nessun termine come quelle due parole ‘lonely’ e 'planet’ avrebbero saputo meglio definire il mio stato d’animo nel congedarmi da quell’anima gentile. Ed ecco che la donna si attivò in una serie di gesticolazioni che volevano dire: la mia casa è qui vicina, se vuoi te la mostro e ti presento papà e mamma, più fratello. Dei e numi dell'universo, cateratte del cielo, apritevi. Velocemente cercai di capire se fosse accettabile il quadretto con dentro me ormai maturo, sposato con la giovane donna sempre affascinante, che ormai aveva imparato a dire ’delicious’ in italiano, circondati da 9 tra bambini/e fanciulli/i, con suoceri sullo sfondo. No, non si poteva. Nonostante questo accettai l’invito e andammo alla sua casa. Questa era un parallelepipedo di cemento con poche finestre e con una porta ammuffita dall'umidità. L'interno era scuro, triste e umido. Genitori e fratello non c'erano. Io non sapevo cosa fare e aspettavo. Alla fine arrivò il padre, aveva una fisionomia più cinese che indonesiana, si presentò e disse di essere un poliziotto. La conversazione non riusciva a decollare. La mamma non si vedeva ma poco male. Dopo un po’ il padre della ragazza mi disse che in Indonesia i comunisti sono malvisti e mi chiese se a me piacevano i comunisti. Io volevo raccogliere il mio zaino e andarmene. Dopo un altro po’ l’uomo mi chiese di mostrargli il mio passaporto. Io mi alzai deciso ad andarmene, ma in quel momento entrò il fratello, che mi invitò a restare ancora un poco. Il fratello della ragazza mi fece tante feste e complimenti, ma aveva un sorriso falso e dopo alcuni minuti mi chiese se viaggiavo con dollari cash o con assegni di viaggio. A quel punto mi alzai veramente, guardai negli occhi la ragazza,
ma non ci vidi più nulla, anche il suo sorriso era scomparso. Uscii dalla casa, raggiunsi la strada principale e fermai un taxi collettivo. La portiera si aprì e
dall'interno del taxi uscì il vociare potente di una conversazione...in lingua tedesca!!!! il taxi era occupato da tre turisti tedeschi diretti anche loro all'hotel consigliato dalla guida Lonely Planet. I tre ragazzi erano eccitatissimi e si parlavano addosso l’uno con l’altro, strappandosi continuamente di mano la copia di un quotidiano tedesco vecchio di alcuni giorni. Mi feci passare la copia, lessi i titoli e rimasi di sasso. Era il 1989 e pochi giorni prima il muro di Berlino era caduto.

martedì 9 dicembre 2008

Viaggiatori clandestini

Kartung, Gambia, 19 novembre 2008
mi trovo sulla veranda di un alloggio turistico affacciato sulla costa atlantica del Gambia, Africa Occidentale. La terrazza dell’alloggio ha pareti, pavimento e balaustra intonacate in calce bianca tirata a lucido. Verniciate di bianco sono anche le sedie e le tavole di metallo destinate agli ospiti dell'albergo. Su di un tavolino è posato un libro che mi propongo di leggere, e che in realtà non ho nemmeno aperto. Il bianco dell'intonaco lucido che ricopre costruzioni e arredi rende l’ambiente simile ad una enorme torta di gesso. Ho l’impressione di trovarmi in una scenografia alla Watteau del ‘Così fan tutte' di Mozart, senonché poi decido che la coreografia marina non ha nulla di mediterraneo. I frangenti vanno a morire su di una spiaggia grigia come ce ne sono tante in Africa Occidentale, grigi sono anche il mare e il cielo, come di consueto in queste zone dell'Africa. Appoggiato alla balaustra di gesso e guardando all’intorno vedo quindi solo tre colori, il verde cupo della boscaglia, il grigio della sabbia e l’altro grigio del mare. Il giorno è livido, nell’aria rimane sospeso il pulviscolo dell’harmattan, vento del deserto mauritano che soffia anche in questa stagione. Il sole è appeso sull’orizzonte e sembra sul punto di caderci sopra come un uovo marcio. In questa zona del Gambia meridionale la costa corre rettilinea verso nord per un lungo tratto, poi disegna un angolo retto verso l’oceano e termina in una striscia di terra sottile come la lingua di un rettile che lambisce l’acqua. Verso sud la spiaggia è priva di palme, coperta com’è solo da una arborescenza di verde chiaro che sembra voler raggiungere l’acqua. Ad un paio di chilometri lo sguardo indovina l’ansa descritta dal fiume Halahin che segna il confine con la regione della Casamance del Sénégal. Mi rendo conto che lasciando la capitale Banjul e scendendo tanto a sud fino a questo albergo sulla spiaggia, in realtà non ho fatto altro che arrivare ad un capolinea. Fine del viaggio. Se vorrò proseguire verso sud dovrò prima varcare una frontiera. Mi ritrovo a pensare che l’altra ragione più forte che mi impedisce di proseguire verso est è che da quella parte c'è l'oceano atlantico. In presenza di elementi tanto primordiali quali il vento, l’acqua e la sabbia, è piacevole pensare che anche i miei ragionamenti possano diventare arcaici e ingenui come quelli di un infante. Questo insediamento turistico ha il nome originario mandinka di 'Boboi', che poi è diventato ‘Boboi Beach Lodge’. Nonostante il nome ora evolutosi ad essere disneyano che ricorda un resort della Florida, questo luogo altro non è l'insieme di una dozzina di bungalow a pianta rotonda sormontati da tetti in frasche di palma, decenti riproduzioni turistiche delle dimore tipiche della etnia ‘diola’ del Gambia e della bassa Casamance. Ora sulla terrazza dove mi trovo un tale mi si avvicina, sorride di un sorriso da coccodrillo e domanda qual’è il mio nome. E' un giovane gambiano di forse venti anni, indossa una camicia verde variegata di altri colori vivaci, sulla nuca ha una treccia da rastafari, ai polsi porta braccialetti di metallo lucido. Segue una conversazione di cui riporto solo la parte del giovane, che è poi costituita per lo più da domande e tentativi imbonitori. ‘prima volta in Gambia?... tuttavia una guida come me può esserti utile ... posso almeno mostrarti il mio business... sono un uomo d’affari di provata moralità... se non hai moglie posso procurartene una...’ il giovane sembra deluso dalle mie risposte, promette che tornerà più tardi e si allontana. Per questo viaggio come di consueto sono partito da solo, ma ora mi sento accompagnato da un moltitudine di presenze che non sono persone ma immagini, suoni e parole. Sono i fantasmi dannati dei ricordi letterari che si sono infilati a mia insaputa nel mio bagaglio, ed ora ne escono come tanti spiriti folletti. Ora non mi libero dalla fantasia di essere
arrivato in questo luogo via mare, a bordo di un improbabile battello a vapore, sullo stesso battello che portò Charles Baudelaire verso questi tropici. Ora l'imbarcazione del poeta attracca ad un molo, i viaggiatori sbarcano e si dileguano nei villaggi e nella boscaglia dell’interno, ma il poeta resta a bordo. Appoggiato alla paratia del ponte egli osserva la corsa dei frangenti verso la spiaggia orlata di palme, si arrotola un altro dei suoi spinelli gonfio della mistura dell'oblio composta di fiori del male e ricomincia a fumare. Il vate della dimenticanza e dello spleen decide che non scenderà mai a terra, la realtà putrescente della costa guasterebbe senza rimedio il suo sogno tropicale. Cerco di scacciare il fantasma letterario di Baudelaire, guardo al mare e alla carica incessante dei frangenti verso la costa, a quell'inutile assalto dell’oceano che s'insabbia con monotona regolarità. Ed ecco che compare il piroscafo 'Admiral Bragueton', quello che trasportava Ferdinand Céline verso queste spiagge. In fuga dall’Europa devastata del primo dopoguerra, Céline sbarcò ad un porto di questi paraggi e sparì nella boscaglia, per continuare il suo strano viaggio al fondo della notte. Invece di guardare il mare ora cerco di ascoltarlo solamente. Le onde però ora sono un tuono cupo come una salva di cannone. Ed ecco che anche la visione cambia, il vascello ora è una pesante pinazza e a bordo c’è Marlowe, il personaggio-chiave di un paio di romanzi di Conrad. Nella sua navigazione lungo la costa dell’Africa Occidentale il battello di Marlowe incrocia una nave da guerra inglese ancorata ad un miglio dalla costa. La nave espone il suo fianco alla costa e spara bordate d’artiglieria verso un villaggio costiero presidiato da indigeni ribelli. Il commento di Conrad è: '...una nave che bombarda un continente...'.
Ma com'è fatto il Gambia? Questo paese ha una linea costiera di soli 70 chilometri ed uno stretto entroterra vermiforme che si insinua nel continente come il parassita nel corpo di un albero secolare. Questo lembo di terra è percorso da est ad ovest dal fiume Gambia, che attraversa all’inizio grandi distese di savane gialle, si riveste del grigio dei boschi di mangrovie e sfocia poi come controvoglia nell’Atlantico, con una differenza di altitudine tra sorgenti e foce di pochi metri. Troppo poco perchè le maree atlantiche non siano tentate di ricacciarne l’acqua dolce e di penetrare nel suo corso per oltre cento chilometri. L’idea di risalire il fiume Gambia su di una lancia a motore mi fa ripartire la fregola letteraria del personaggio Marlowe che risale il maestoso fiume Congo a bordo di una chiatta a vapore. Marlowe ha avuto l'incarico dalla sua compagnia coloniale di rintracciare l'agente Kurtz, le cui tracce si sono perse da qualche parte all'interno di una foresta dal cuore di tenebra. Faticoso e ossessivo è stato quel rimontare una corrente color terra cosparsa dei detriti vegetali rigettati dalla boscaglia. Ai lati del fiume si ergono le muraglie della foresta pluviale primaria, chiusa in se stessa e offesa da quella intrusione. Secondo Marlowe/Conrad, sulla mappa dell’Africa il fiume Congo disegna una serpe che tiene la coda nascosta nelle foreste dell’interno e le fauci spalancate nell'Atlantico. Non so proprio che cosa abbia il Congo in comune con il Gambia se non il fatto di essere entrambi fiumi oggetto di stravaganti ricerche di esploratori vittoriani e viaggi onirici di romanzieri del primo novecento. Riaprendo gli occhi sulla realtà di questo pomeriggio stralunato vedo che l’harmattan continua a lasciare sospeso nell'aria il suo pulviscolo sahariano e che il sole è moribondo ma non ne vuole sapere di tramontare. In Africa il tempo scorre
lento ma in modo irregolare. A volte gli istanti che compongono una giornata come questa sono troppo lenti, il tempo s’intasa e poi si ferma, l’Africa torna ad essere ciò che è sempre stata, uno stato d'animo ancorato alla preistoria.

Buba Jammeh

Kartung, Gambia, 19 novembre 2008
Nella iterazione ossessiva di deserto, savana e foresta, i soli tre stati fisici che l’Africa conosce, Alberto Moravia vede l’annullamento della categoria dello spazio africano, e di conseguenza anche di quella del suo tempo. Il viaggio africano diventa dunque per lo scrittore non solo la fine dello spazio, ma anche la fine del tempo, e quindi il ritorno alla preistoria. Per Moravia l’ipotesi non può che trovare conferma nella visione degli scenari alluvionali da tregenda pleistocenica di grande parte dell’Africa saheliana e delle savane. Ma ora, sulla terrazza del Boboi Lodge di Kartung, osservando un gecko che s'immobilizza davanti ad una mosca verde brillante per un minuto intero e poi se la ingolla in un lampo, penso alle accelerazioni impensabili di cui è capace il tempo in Africa. Il gecko ingoia la preda e poi annuisce e annuisce, e m'insegna che il tempo è comprimibile come una molla, che il tempo è una materia che qui ha poco valore e significato ma che l’animaletto riesce a modellare per il suo scopo, quello di nutrirsi. Ora osservo che il giardino del lodge, con i suoi arbusti fioriti, è habitat di grandi sciami di insetti, che a loro volta attirano i gecko e varie specie di lucertole giganti, oltre ad una varietà senza numero di uccelli.
Mentre sulla terrazza del lodge aspetto il calare del sole, fanno la loro apparizione altri personaggi, quello di Buba Jammeh e della sorella Amina Jammeh, figlia dello stesso padre e della stessa madre. Perché in Africa è necessaria questa precisazione? Perché ‘sorella’ o ‘fratello’ come termini unici sono indicazioni vaghe che si riferiscono alla sola grande famiglia estesa africana, che può comprendere anche decine di persone o anche un intero clan. Buba è un giovane mandinka di 24 anni, ha lunghe braccia e gambe, ha pelle liscia, lucida e glabra. Noto che Buba soffre di uno strabismo che non esito a definire di Venere se penso a quanto di femmineo e di nobile c’è nel corpo e nel portamento di Buba. Da dove viene tutta la nobiltà dei suoi gesti e del suo parlare? Per ora Buba mi informa che lavora in questo albergo come contabile, un lavoro umile e mal pagato. In seguito verrò a sapere che solo Buba è in grado di capire ciò che va o che non va bene nella gestione dell’albergo. Se qualche conto non torna, Buba ne sa la ragione. Il giovane Buba non è solo contabile, ma capisce le cose della tecnica e dell’amministrazione, a Buba si rivolge la gente quando un macchinario ha un guasto. Se un turista europeo è contento o scontento, solo Buba ne conosce il vero motivo, perchè Buba vede nella mente dei 'toubab', degli ospiti europei che pernottano al lodge. Buba è una persona gradita e ricercata da tutti, ed è quindi l'anima del posto, eppure il giovane occupa solo una posizione subalterna e mal retribuita. Amina Jammeh è una giovane donna mandinka dalla età indefinibile. Amina ha un collo sottile come lo stelo di un calice di ebano, una testa nobile e perfetta, labbra
pneumatiche e occhi bistrati di nero, affetti dallo stesso leggero strabismo del fratello Buba. Ora il tempo che mi rimane per osservare distintamente l’area piantumata di fiori, il palmeto che orla la spiaggia, il mare e, depositata in questo scenario pigramente tropicale, la splendida figura di Amina Jammeh, sta per terminare. Il sole ha deciso che dopo l’apparizione di Amina non c’è più nulla di interessante da mostrare e si decide a tramontare tuffandosi nell’Atlantico. Fra poco l’oscurità nasconderà gli immancabili particolari più ordinari e banali presenti in questo scenario, mentre i lampioni del giardino illumineranno i contorni degli oggetti più nobili, come il profilo altero delle palme. Più tardi compariranno basse sull’orizzonte verso ovest due stelle che brillano più delle altre. Le due stelle si appenderanno sul cielo in posizione perfettamente sovrapposta una sull’altra e la loro luce si rifletterà sulla superficie del mare. Sarà Amina a spiegarmi che quei due corpi celesti comparsi con una sincronia ammirevole in realtà sono due pianeti. A differenza di quella delle stelle lontane, infatti, solo la luminosità intensa di un pianeta è in grado di riflettersi sul mare. Dopo avermi dato questa lezione di esotica astronomia, Amina si congeda da me e si allontana. Osservo il suo profilo da anfora minoica e il suo ancheggiare pigro e ballonzolante, che credo innocente e che sicuramente è ingenuo. Ora ricordo che solo le donne africane sanno istintivamente ballare quando camminano, e che la loro libertà al di fuori e lontano dalle corvées ingrate della loro vita domestica altro non è che uno splendido incedere su di una invisibile passerella. Qui termina la mia prima giornata all'albergo Boboi di Kartung, all'estremo sud del Gambia. Ora il giardino è immerso in un buio di pece, quindi salgo gli scalini che mi portano ad una terrazza sopraelevata di legno, coperta dal solito tetto di frasche di palma, dalla quale potrò continuare ad osservare il mare. L'ingresso della terrazza è sorvegliato da una grande maschera africana di legno scuro appesa alla parete. La maschera ha una espressione da demonio delle savane e di propiziatorio non promette nulla. Gli occhi dell’apparizione sono due fessure chiuse, il naso è rincagnato e la linea orizzontale della bocca socchiusa mostra due denti canini. Più che un feticcio benigno che allontana gli spiriti cattivi, la maschera sembra quindi essere, essa stessa, la manifestazione pittorica e scultorea di qualche spirito malvagio. Mentre i misteri di questo viaggio e di questi luoghi si sono accumulati, mentre continuo a farmi domande sulla vita di Buba e di Amina, e sulla strana
collocazione nel cielo dei due pianeti sovrapposti, la maschera sembra volermi dire che una risposta ai miei interrogativi proprio non l’avrò. Questo totem-sentinella posto all’ingresso della terrazza del Boboi lodge mi sta avvisando che ci sono cose in Africa che non è necessario che io sappia.

martedì 7 ottobre 2008

Il convitato di pietra

Alcuni anni fa ero impegnato insieme un gruppetto di ecologi di Milano nella protezione delle foreste tropicali d'Africa. Per quella nostra intrapresa e crociata ci servivamo di lettere aperte, lettere chiuse inviate ad autorità varie, pamphlets inviati a nessuno, ma soprattutto di parole, di tante parole che riempivano i nostri incontri e che dimostravano quanto bene avevamo metabolizzato le nostre letture di alcuni trattati di ecologia forestale e soprattutto della rivista National Geographic. I risultati pratici da noi ottenuti erano pochi, ma le numerose nostre discussioni condotte durante cene interminabili a Milano, coronate da solenni dichiarazioni d’intenti, tanto più solenni quanto più numerose erano le birre che avevamo bevuto, ci davano la sensazione di stare facendo qualcosa. Un giorno nel gruppetto di appassionati amatori di alberi che eravamo si presentò un nuovo arrivato, il console onorario del Gabon per la sede di Milano. Questo signore alla sua funzione di console abbinava una passione smisurata per le foreste del mondo che sono minacciate dalla distruzione ad opera delle multinazionali del legname. Data la nostra affinità di idee e di propositi, non fu difficile instaurare fra noi una frequentazione assidua, sempre con il comune denominatore di cene e bevute in vari locali di Milano. Cambiavamo locale abbastanza spesso, dato che il console era una persona volubile. Una sera il discorso cadde su come scrittori, divulgatori e romanzieri, italiani e non, si confrontavano con il tema delle foreste in pericolo. Io attaccai a parlare di Alberto Moravia, sui frequenti viaggi che lo scrittore aveva compiuto in Africa insieme al regista Andrea Anderman, sulla corrispondenza che aveva regolarmente inviato al Corriere della Sera e che da questo giornale era stata pubblicata nel corso degli anni. Mentre dicevo queste cose notai che l’amico console aveva smesso di mangiare e mi fissava. Che strano! Continuai a parlare di un viaggio che Moravia aveva fatto in Gabon. Nel suo articolo Moravia descriveva una pista di laterite rossa che si addentrava nella foresta pluviale, ricordava come il colore rosso della pista si stagliata su quello verde cupo della foresta e vedeva la pista come una ferita aperta nel cuore verde della foresta. Secondo il racconto ad un certo punto Moravia si stancò dei sobbalzi della Land Rover sulla pista e fece fermare il veicolo per fare una sosta ad un piccolo villaggio. Fu allora che lo scrittore fu avvicinato da un Europeo (nel testo di Moravia non si desume ch'era un italiano), venne avviata una conversazione, emerse che lo sconosciuto era un ecologo che si occupava della salvaguardia delle foreste. Non feci a tempo a finire il discorso, perché l’amico console seduto di fronte a me quasi saltò sulla sedia ed esclamò: ‘Ero io! sono io! l’ecologo ero / sono io! è in quel villaggio che ho conosciuto Alberto Moravia!' Porca miseria. L’amico console era una persona di grande sensibilità e una sua caratteristica era di pensare e agire in modo uterino. Il fatto che io fossi al corrente di quell’incontro tra Moravia e il console, senza sapere chi era quel lui, e tutto questo solo per averlo letto sul giornale, riportava alla sua memoria l'eccezionalità di quell’incontro, stabiliva un legame di fratellanza culturale fra Moravia, lui e me (!), e finiva per gettare un ponte di liane fra tre personaggi della foresta, uno illustre ed ormai entrato nel Parnaso dei maggiori scrittori mondiali, un bizzarro console del Gabon, e alla fine, vedi vedi, me stesso.
Al tavolo di ristorante che occupavamo c'era una sedia vuota. Era come se vi fosse seduto Alberto Moravia, con i suoi occhietti spiritati e le sue sopracciglia a cespuglio che si muovevano mentre parlava. Moravia era lì con noi anche senza esserci. Era il nostro convitato di pietra.

Dahab

nei giornali di questa mattina leggo che tre turisti italiani sono morti in un incidente stradale a Dahab, località turistica della penisola del Sinai situata a nord di Sharm-el-Sheikh, sulla litoranea che va a nord verso il confine israeliano. Ricordo che su questa riviera si sono verificate in passato altre sciagure piccole e grandi che hanno coinvolto turisti. Le esplosioni di bombe messe da attentatori provocarono morti a Sharm e all'Hotel Hilton di Taba, centro balneare a ridosso della frontiera e dirimpettaia alla cittadina israeliana di Eilat. Una persona che vive a Dahab e che conosco da tempo ogni tanto mi informa via e-mail di altri fatti minori che hanno rovinato
le ferie a più di un turista. Dahab era un villaggio beduino che negli anni 70 era diventato un centro hippy frequentato da giovani europei ed israeliani, poi ha seguito una vocazione turistica più commerciale e si è riempito di alberghetti e ostelli, e poi alla fine di hotel a 4 e 5 stelle. In Dahab io trascorsi un periodo abbastanza lungo quando la vita lì era ancora abbastanza quieta e c’erano solo soprattutto centri di immersione subacquea e ristorantini tipici affacciati sul mare. Dahab in arabo significa ‘oro’. A Dahab feci conoscenza con Achmed, un signore che aveva la sua casa al Cairo, ma durante la stagione turistica si trasferiva a Dahab con moglie e figli, maschi e femmine. Achmed e la sua famigliola vivevano in una bruttissima casa nelle retrovie di Dahab, in un paio di camere il tetto era scoperchiato, i mobili erano quasi inesistenti, i tappeti erano di
plasticone colorato fatti forse in Cina e comprati a buon mercato. Achmed, moglie, figlie e figli cucinavano, mangiavano e soggiornavano per terra, seduti su questi tappeti colorati. Forse ci dormivano anche, mettendo prima sopra un materasso di schiuma e un lenzuolo. Tutto intorno alla casa c’era una periferia lebbrosa, senza fognature, con mucchi di rifiuti gettati agli angoli delle strade, che il vento del deserto portava ovunque. Le capre erano dappertutto e brucavano sui mucchi di rifiuti. Vedi Dahab e poi muori. Achmed aveva preso in affitto un negozietto monoluce dall’intonaco
slabbrato, ma situato in buona posizione sul lungomare dove passeggiavano i turisti. E' a questi turisti Achmed cercava di vendere i suoi flaconcini di profumo immagazzinati alla meglio nel suo negozietto ed esposti in malo modo nella sua unica vetrinetta. Quando agganciava qualche turista e
riusciva ad adescarlo all’interno del negozietto, Achmed si lanciava in perorazioni incendiarie per esaltare la genuinità dei suoi profumi, ‘distillati dai fiori delle oasi più sperdute d’Egitto’. In realtà non a tutti è noto che
nelle oasi d’Egitto non ci sono fiori. Achmed riceveva con regolarità la visita di un commerciante del Cairo che gli vendeva bottiglie di alluminio contenenti essenze sintetiche prodotte a Grasse, Francia, e importate via Alessadria, oltre ad altre bottiglie di alluminio che contenevano diluenti. L’operazione di miscelazione (Ahmed piccolo chimico) avveniva sul r etro del negozietto, per terra, senza tappeti. Achmed aveva un occhio solo funzionante, l'altro occhio era una sfera di colore bianco lattiginoso. Vestiva
sempre e solo un jallabah bianco un po’ sudicio, aveva sempre una barba di 5 giorni, però non se la faceva crescere di più, forse per non sembrare un musulmano molto praticante. In effetti Achmed non era praticante: non andava alla moschea il venerdì, non faceva Ramadam, per motivi di 'salute', diceva lui, all'occasione beveva alcolici e fumava in continuazione. A parte questo Achmed era il più saggio, estroverso, vissuto e umoristico personaggio che io conoscessi nel Sinai. Achmed era fatalista e non si preoccupava di nulla al mondo. Se c’era un problema, la sua frase preferita era ‘we shall fix it’. Qualsiasi cosa poteva essere regolata, fissata. Fix, fix, fix.
Achmed era cordiale e buono e, nonostante le sue condizioni economiche poco allegre, ancheanche incredibilmente generoso. Mi ero affezionato ad Achmed. Durante il mio soggiorno a Dahab il cielo rimase grigio e
leggermente nuvoloso solo per un paio di giorni. Si diceva che ci fosse eccezionalmente stata pioggia all’interno del Sinai, all'incirca nella zona del monastero di Santa Caterina. Ricordo che poi tornò il sole a picco, quella
mattina uscii dal mio alloggio-bungalow per passeggiare verso il centro del paese. In prossimità dello 'ouadi' in secca vidi una folla di persone che bloccava la stradina del lungomare. Tutti guardavano davanti a sé, apparentemente verso l'altra parte del ouadi. Il muro di persone, turisti e
locali, era talmente fitto che io non riuscivo a vedere che cosa stessero guardando. Un passante a cui chiesi mi rispose che c’era dell’acqua.
Acqua? Improvvisamente dalla folla si levò un grido e tutti si misero ad arretrare confusamente, e poi a correre verso di me. Che cosa stava succedendo? me lo raccontarono dopo, quando tutta quella storia finì. Il giorno prima era piovuto all'interno del Sinai. Come sempre succede nelle zone desertiche, l'acqua piovana si raccoglie nelle 'ouadi', poi comincia ad accumularsi e a correre verso il mare. Il terreno non l'assorbe e la fiumana ingrossata può percorrere distanze impensabili, sempre cercando il mare. Nel frattempo ero tornato al mio bungalow e qui il proprietario degli alloggi stava tranquillizzando un gruppo di turisti israeliani sulle possibilità che l'acqua arrivasse fin lì. Stava dicendo 'non c'è alcun motivo di preoccupazione, lo sbocco del 'ouadi è a 200 metri da questo villaggio e qui siamo all'asciutto', quando da sotto il portone nord del villaggio un liquido color marrone cominciò a tracimare e ad avanzare tra i bungalow, poi si udì un colpo violento, il portone si spalancò di colpo come forzato
dall’esterno ed un’ondata di piena di acqua e terriccio grigio-marrone invase il posto, sempre più alta e sempre più potente. Una inondazione nel deserto!
Ero senza fiato. Le esortazioni del proprietario continuarono ancora un po’, poi cessarono del tutto, ci fu un fuggi-fuggi generale del personale e dei
turisti. Lo ouadi si era sfondato su un fronte di 200 metri verso nord e l’onda di piena era arrivata fin lì! In situazioni anomale succede che i pensieri più strani si affaccino alla mente. In quell'istante mi venne il pensiero che non avevo ancora fatto colazione. E’ incredibile come nelle
situazioni di emergenza la ragione analitica rimanga abbastanza imbranata, e con quanta prontezza invece si attivino l’intuito e tutta una serie di riflessi condizionati. Come se qualcuno mi avesse impartito un’istruzione ben
precis, entrai di colpo nella mia stanza, recuperai subito i miei documenti, impacchettai in un lampo il mio bagaglio compresi i miei libri, uscii dal bungalow mentre la fiumana marrone già arrivava al ginocchio e issai tutte le mie cose sul tetto a terrazza della struttura. Poi mi issai anch’io, rimasi in piedi sul tetto-terrazza e guardai verso lo ouadi. Questo aveva rotto il suo argine nord, la piena dell’acqua aveva investito la periferia del villaggio e gli impianti turistici a partire dal suo sbocco originario a mare su di un fronte di forse 300 metri. Retrovie di Dahab e frontemare erano ora invase da una fiumana color terra che aveva spazzato case, palme, stradine. Una parte di Dahab era sott’acqua, dalla mia posizione sul tetto vedevo le altre persone che si erano rifugiate sui tetti delle loro case, contemplavo lo scempio tutto attorno. Guardando verso nord, dove c’era la casa di Achmed, vidi che l’inondazione non era arrivata. Achmed e la sua famiglia erano rimasti
all’asciutto. La forza del fronte d’acqua che veniva dal deserto prese a scemare solo verso il pomeriggio, io scesi dal tetto terrazza per mangiare e bere qualcosa. Era la prima volta che facevo colazione alle 17:00. Il giorno dopo rividi Achmed e gli dissi quanto era felice che l’acqua non fosse arrivata fino alla sua casa. Ero costernato a vedere il villaggio di Dahab mezzo disastrato, la stagione turistica rovinata, le case incrostate di fango
bagnato, le strutture degli impianti turistici spazzati a mare, la stradina del lungomare distrutta. Achmed non si scompose molto e tra un tiro e l’altro di sigaretta disse solo: ‘no worry, they will fix it, they will fix it’.

Grazie, non fumo

Ero in viaggio in un’area della Tailandia del nord compresa all’incirca tra Chiang Mai e Chiang Rai, non lontano dal cosiddetto triangolo dell’oppio (mamma, che brivido), cioè la regione tailandese confinante con Myanmar e con Laos. Per visitare meglio la zona, in una cittadina noleggiai una motocicletta Yamaha 125 a due tempi e partii gasato e rombante come solo avrebbe potuto partire Cyril Neveu a cavallo della sua Yamaha Enduro XT500 per la Parigi-Dakar del 1980. Viaggiare in moto in Tailandia è un’esperienza bellissima, ma a patto di non cadere mai dalla moto. Lapalissiano, vero? L’altro inconveniente è che viaggiare in moto su quelle strade, e poi sulle piste non asfaltate, può essere divertente per i primi 45-50 km, poi diventa una galera. E’ per questa ragione che, trovandomi in una zona relativamente disabitata di colline ricoperte di giungla verde e sentendomi stanco, mi arrestai quando vidi che ai piedi di una collinetta più bassa nel mezzo di una radura sorgeva una grande costruzione di legno, probabilmente di teak, sormontata da un tetto spiovente di fibre e foglie di palma. La costruzione aveva tutt’intorno un patio di tipo coloniale sul quale qualcuno aveva sistemato panche e amache. Osservando più da vicino mi accorsi che quello strano casone era in uno stato malandato, come se non ci abitasse nessuno. In effetti non si vedeva anima viva e non si udiva neanche un rumore. Tutt’intorno la giungla con qualche uccelletto che cantava. Poi l’uscio di legno del sinistro casone si aprì scricchiolando (e dalli con gli effetti da brivido) e ne uscì un tailandese anziano, malvestito e con la bocca sdentata, ma sorridente. Naturale, in Tailandia tutti sorridono, anche se stanno per ucciderti. L’anziano signore agitò la mano per invitarmi ad entrare, io esitavo, ma lui continuava ad agitare la mano e a sorridere. Notai che un paio di denti gli restavano, ai lati della bocca. Alla fine entrai, l’interno era ancora più malconcio dell’esterno, c’erano varie camere semibuie, poi vidi delle specie di loculi separati da stuoie vegetali. C’era foschia nell’aria umida delle stanze e c’era uno strano odore di non sapevo cosa. Poi vidi che straiati su stuoie lerce in un paio di quei loculi c’erano due corpi di uomini scalzi che sembrava dormissero. O forse erano morti? Il mio fastidio diventò malessere, e in quel momento capii che non mi stavo più divertendo. Chi diavolo erano quei corpi, chi era quel vecchio bavoso e che cosa era quel casone? Poi l’anziano raccolse da una stuoia un cilindro allungato di legno chiaro e me lo porse, il cilindro aveva una imboccatura ad un lato e un caminetto all’altro e assomigliava ad un calumet o pipa lunga degli indiani d’America. Forse era l’afa tropicale o forse era la stanchezza del viaggio in moto, ma perché mai ci misi tanto a capire che quel tubo di legno era un chillom e quel casone era una fumeria d’oppio? Oppio! non l’avevo mai provato (questo sia ben chiaro) e, come diceva Oscar Wilde, se c’è una cosa a cui non so resistere, questa è la tentazione. E poi se non conosci il male come fai ad evitarlo ? (questa non ricordo chi l'ha detta).
Valeva quindi la pena, forse, di provare a fare un paio di tiri di chillom, sdraiato anch’io sulla stuoia del terzo loculo. Mi sarebbero venute delle visioni oppiacee, avrei visto delle cornucopie di frutta, cascate di perle sarebbero zampillate giù da scalinate di cristallo che scendevano direttamente dal paradiso, là dove mi attendevano 72 vergini. Lo so che queste appartengono ad una diversa interpretazione del paradiso, ma chissà che nell'empireo buddista ci fosse qualcosa di simile? Poi mi vennero dei dubbi: gli imprevisti, l’imponderabile. Ed ecco che mi sentii trasformato in Paperino, quando in cima al fumetto da un lato appare un paperino più piccolo e rosso che impersona un diavoletto, e dall'altro lato un paperino che fa da angioletto. Uno diceva: resta qui e fuma il chillom, l’altro replicava: non fare sciocchezze, quando ti sei ben messo a fumare e sei intontito, dalla stanza accanto sbucheranno due figuri delle triadi tailandesi che ti toglieranno soldi e passaporto, quest'ultimo buono da vendere al mercato nero. I due delle triadi sono esperti di kick-boxing e non si fermano di fronte a nulla, dopo avermi spogliato di tutto si consultano. La sua moto? Già provveduto. E di lui che facciamo? Non so, ma ho visto che è solo e non ci sono testimoni. Bene, allora facciamolo sparire. Poi i due mi passano intorno al collo un filo di ferro, io sorrido senza capire bene perché l’oppio mi ha ottenebrato la mente, i due ceffi annodano i capi del filo di ferro e cominciano a tirare. Durante l'operazione i due non smettono di sorridere, con quei loro occhietti da nazista.
Alla fine paperino angioletto ebbe la meglio, io declinai l’invito dell’anziano che stava sempre di fronte a me tendendomi il chillom, uscii dal casone, avviai la motocicletta e me ne andai.

Bali

che ci siano dei limiti alle capacità di integrazione di un viaggiatore in paesi che hanno usi e costumi diversi è un fatto che non tutti ammettono. Si ha un bel dire ‘quando sei a Roma etc’ ma anche con la migliore buona volontà questo non è possibile. In Bali, isola dell’arcipelago indonesiano situata fra Giava e Lombok, gli usi e costumi dei suoi abitanti sono originali e diversi anche rispetto al resto dell’Indonesia. La religione è la versione balinese dell’induismo importato nel paese in epoche lontane e poi emarginato dalla religione musulmana. Bali è l’isola delle danze delle fanciulle sacre, degli uomini che rievocano la pantomima di Hanumam, il dio-scimmia, dei templi sormontati da un portale a due strutture sinuose ai lati e rettilinee al centro. Il questo interstizio simbolo del passaggio dall’umano al divino sacerdoti e dragoni fanno la loro comparsa e prendono a danzare al ritmo di strumenti a percussione che hanno sonorità metalliche e arcane. Bali è sede del monte Agung, che a suo volta è sede dell’Olimpo Hindu e dimora di una fitta schiera di dei, semidei e demiurghi di vario genere. Il monte, ex vulcano spento, è sacro, le sorgenti che sgorgano dalle sue pendici sono sacre, come lo sono le risaie che le acque inondano, la vegetazione che ammanta le colline, e tutta la cosmologia che da vulcano, acque, terra e piante gli abitanti di Bali hanno derivato. In Bali tutto è sacro, il visitatore deve essere quindi avvisato che difficilmente riuscirà a vedere, toccare, calpestare, udire o anche solo odorare luoghi, persone, oggetti, immagini e simboli che non siano invariabilmente sacri. La festa di suoni, colori e aromi stordisce e incanta chi non l’ha mai vista e le meraviglie dell’isola non smettono di provocare, da trent'anni a questa parte, una fiumana di turismo barbaro che minaccia di ridicolizzare il tutto. All’interno dell’isola si trova il villaggio degli artisti di Ubud, dove ogni giorno si ascoltano i cimbali che accompagnano i frequenti riti, le processioni sacre, i matrimoni e i funerali. In Ubud io stavo soggiornando da un paio di settimane ed il fatto che lo riporti qui è pretesto per la narrazione del banale anneddoto che segue. In Ubud durante il giorno seguivo i riti e le processioni che riuscivo a rintracciare, di notte al tempio non avevo altri occhi e orecchie se non per le danze sacre delle fanciulle dalle dita che si muovono come petali e degli uomini che evocano il dio-scimmia. Ubud era diventata la mia fissazione ed anche una pericolosa assuefazione dei sensi e del cervello. Fu così che un giorno decisi di visitare il resto dell’isola e per primo il monte sacro Agung. Noleggiai un jippino Suzuki perché l’idea del veicolo tuttoterreno faceva scattare il riflesso condizionato dell’avventura da brivido. Rimasi deluso quando esaminando la scocca da sotto notai con sorpresa che mancava il treno anteriore, in altre parole la trazione era solo posteriore. Il noleggiatore mi spiegò che quel modello è importato in Indonesia di serie con la sola trazione posteriore. Mi sembrò una trovata leggermente da bidone, ma tant’è, Bali non è l’Africa e le sue strade sterrate sono facilmente percorribili. Partii e in giornata arrivai in vista del monte Agung. Mi trovai così a contemplare un cono scuro e austero che si stagliava sul cielo dell’orizzonte settentrionale dell’isola. La vista era impressionante, e a questa sensazione contribuiva certo il sapere che lassù abitavano gli dei. Ripensai all’allegro pantheon Hindu e alla sua immagine riprodotta ovunque nella iconografia classica di questa religione. Il dio Shiva è in primo piano, la sua pelle è blu, ha anelli alle caviglie e bracciali ai polsi, il capo è riccamente adornato. Shiva ha un aspetto femmineo, suona un flauto traverso mentre una dea a lui subordinata lo osserva con rapimento. Una folta schiera di altri dei, tra cui Parvati, circonda premurosa e sorridente Shiva, il dio di tutti gli dei. Ai suoi piedi è accovacciato Hanuman, il dio-scimmia, la testa levata in alto con devozione. Nella mia barbarie agnostica ho sempre associato la figura di Shiva a quella di un playboy circondato da uno stuolo di conigliette...
Terminata la contemplazione del monte Agung mi diressi ad un locale dove servivano cibo balinese, mi sedetti e dopo qualche minuto mi portarono un piatto a base di riso. Mentre mangiavo, un uomo seduto al bar girò il suo sgabello verso le tavole del ristorante e cominciò a discorrere con altri commensali che stavano mangiando. Dopo un paio di frasi l’uomo scaracchiò e sputò in terra, poi riprese la conversazione. Terminato un suo giro di frase, l’uomo di nuovo scaracchiò e sputò in terra. Io stavo mangiando, e con apprensione capii che i due sputi non erano una eccezione, ma facevano parte della conversazione, erano per così dire strutturali al modo balinese di fare conversazione. Soltanto in seguito venni a sapere che sputare serve a cacciar via gli umori e gli spiriti cattivi, o qualcosa del genere. Troppo tardi! L’uomo parlava e sputava in terra, continuamente, con regolarità e naturalezza. La tensione in me montava, mi dicevo che dovevo adattarmi agli usi locali, ma proprio non ci riuscivo. A un certo punto uscii dai gangheri, mi alzai e mi rivolsi all’uomo con garbo ma in modo deciso: ‘per favore, la vuole smettere di sputare in terra davanti a me? non vede che sto mangiando…’ La persona sembrava stupita ma per niente offesa. Smise di scaracchiare, fece qualche commento, io finii di mangiare il mio riso. Uscendo dal ristorante non capivo se mi ero comportato bene o male. Guardai in alto verso il monte Agung, e in quel momento mi parve di udire un lontano rumore affievolito dalla distanza. Tesi l'orecchio. E poi compresi: lassù gli dei, Shiva, Parvati, Hanuman e tutti gli altri, stavano ridendo.

Bidonvilles africane

Fare del turismo nell’Africa sub-sahariana non presenta particolari problemi di sicurezza a condizione di soggiornare in zone rurali o centri abitati minori. Le città invece possono diventare giungle urbane pieni di sorprese. Ecco qui un paio di esempi di raggiri in cui il turista europeo può incappare. A Nairobi, Kenya. Cammino sul marciapiede affollato di una strada del centro cittadino (Yomo Kenyatta Centre), un oggetto biancastro ruzzola in terra di fronte a me, l’oggetto sembra essere caduto dalla persona che mi cammina davanti. Mi chino e lo raccolgo, è una grossa busta rettangolare tenuta insieme da elastici, mentre affretto il passo per avvertire la persona che ignara continua a camminare lo sguardo mi si posa su dei caratteri stampati in neretto sul retro della busta. Vedo che è una distinta di numeri, questi sono importi in dollari e scellini keniani, al tatto sento che la busta è rigonfia di carte. Come scottato lascio cadere la busta sul marciapiede. Una persona che mi camminava a fianco e che solo ora noto raccoglie la busta, getta un’occhiata alla distinta di valute e subito mi mette una mano sull'avambraccio. Questi eventi si susseguono nel giro di brevissimi istanti tanto da sembrare simultanei, la mente è impreparata e non riesce a imbastire un giudizio chiaro su ciò che sta accadendo. La persona davanti a me, quella che deve avere perduto la busta, continua a darmi le spalle ed ora si sta allontanando, il compare che ho a lato e che mi tiene l’avambraccio mi sussurra: 'facciamo a metà'? La razionalità continua ad essere offuscata ma l’intuito, alimentato dalla somma di esperienze della vita di uno che non è nato ieri, comincia a illuminarsi della stessa luce che si intravede in fondo ad un tunnel. L’intuito ora mi urla ‘imbroglio’! Libero l'avambraccio dalla mano del mio complice del furto, mi allontano, cerco di confondere tutta la mia bianchezza nella folla nera che brulica nel Yomo Kenyatta Centre. Il sole è allo zenit nel cielo ma non scotta, l'aria è frizzante, Nairobi è a cavallo dell’equatore ma con i suoi 1600 metri di altezza ha un clima da sogno. Io però guardo poco il paesaggio urbano circostante, ripenso all'accaduto e continuo a ripetermi come un disco rotto che non sono nato ieri. I due della scam, della combine, della fregatura, lavoravano certo d’accordo. Non so bene come, ma se io avessi accettato di spartire quei soldi, ad un certo punto il jolly crudele sarebbe scattato fuori a molla dalla scatola, il tale che fingeva di aver perduto la busta sarebbe tornato indietro, avrebbe minacciato denuncia, il complice avrebbe testimoniato contro di me, poi avrebbero proposto di non sporgere denuncia in cambio di denaro, di tanto denaro, e la trappola si sarebbe richiusa su di me sotto forma di estorsione. Se non proprio così, le modalità della fregatura avrebbero avuto un andamento analogo. Importante per gli artisti da marciapiede di Nairobi sono le grandi linee del copione, il resto può essere improvvisazione.
Esempio di raggiro numero due. Aeroporto di Douala, Cameroun. A questa fregatura è difficile sfuggire perché è fatta a imbuto, come l'entrata di una nassa per intrappolare pesci. Chi la mette in opera sono agenti aeroportuali con distintivi, tessere e cartellini, e con quelli c'è poco da fare. Il mio aereo per l'Italia sta per partire, stanno imbarcando i passeggeri, mentre mi affretto a mettermi in coda vengo invitato ad un controllo supplementare. In una stanzetta un ufficiale di dogana ed uno di polizia mi chiedono di dichiarare il contante che ho con me. Il tempo stringe, un altoparlante ripete la chiamata per l'imbarco, io non ricordo quanto contante ho con me e non voglio mettermi ad aprire buste e portafogli. Rispondo che non so quanti soldi ho addosso, l'ufficiale insiste perché io dica una cifra, e aggiunge ‘una cifra qualunque’. La genialità del raggiro risiede nella parola 'qualunque’. Dichiaro un importo approssimativo di contante che stimo di avere e la trappola scatta. Il click non lo sento io, lo sentono loro. Ora i due mi ingiungono di vuotare tutte le tasche per verificare che io abbia realmente quella somma. Protesto replicando che mi parte l'aereo, ma i due sono irremovibili (non posso sapere che l’aereo non partirà senza che il pilota abbia ricevuto un OK via radio proprio da uno due, per l'esattezza il poliziotto grande arrotondatore di stipendi). Vuoto le tasche, vuoto il portafoglio e le buste, tutti e tre contiamo i soldi, la cifra ovviamente non può quadrare con quella che ho azzardato prima ed ora i due mi accusano di falsa dichiarazione ad ufficiali della Repubblica del Cameroun. Dovrò pagare una multa di xy CFA o di valuta estera, sul posto, immediatamente e nelle loro mani. La cifra è enorme, equivale a mezzo stipendio camerunese di un mese, scatto in piedi come una molla, il furore mi sale alla testa, gli occhi mi diventano fessure. Ho capito la scam, che lì si chiama 'magouille'. L’epilogo della scenaggiata però è tutto mio. Anche in questo caso l'aiuto non può venire che dall’esperienza in cose africane, permettete. Mi siedo di nuovo davanti ai due, mi fingo rilassato, annuncio che non verserò un solo CFA, l'aereo parta pure, io ritornerò in città e ripartirò la settimana prossima. Il mio bagaglio già nella pancia dell’aereo? che parta pure, lo ritroverà a Malpensa fra 7 giorni. E aggiungo: la mia azienda si farà viva con voi signori per sapere perché non sono partito, il grande chef non sarà contento, qualcuno vorrà spiegazioni. E poi aggiungo il finale: signori, non mi dispiace se non parto ora, stasera all'Aqua Palace di Douala (Hotel 5 stelle con discoteca dove suonano i migliori artisti del Cameroun) è di scena l’artista xy. I due sono stupiti, la radio gracchia un messaggio dall’aereo dove l’equipaggio attende un passeggero in ritardo, ci sono attimi di esitazione, poi arriva la soluzione. Il poliziotto lancia un latrato dentro la radio, poi un altro latrato a me: ‘raccolga le sue cose e si tolga dai piedi’. Mentre nel tunnel d’imbarco mi dirigo verso l’aereo, che ora ha i motori che fischiano, non affretto il passo, so che mi stanno aspettando e che farò un ingresso in cabina in stile VIP.

Komodo

...l'isola dei varani. Alcuni anni fa visitai quest'isola dell’arcipelago indonesiano, arrivandoci con una specie di vaporetto, insieme ad una comitiva di turisti. Volevamo vedere i famosi varani giganti e non stavamo nella pelle per la curiosità. Komodo è un’isola piatta e semiarida, c’erano acacie in giro, il colore dominante era un giallo che sfumava nel rosso lateritico. Ci incamminammo in fila dietro il guardiano del parco indonesiano e arrivammo ad una radura gialla e ricoperta di arbusti. La guida puntò il dito verso il centro e i bordi della radura e fu così che avvistammo i varani, lucertoloni preistorici, alcuni immobili al sole, altri che si muovevano pigri fra gli arbusti con un movimento apparentemente scombinato delle zampe anteriori e della coda. Ad un lato della radura c’era una palizzata di legno bassa e al di là di questa c’era una macchia più folta di arbusti. Nel momento in cui la guida puntò il suo dito verso la macchia di arbusti, da questi uscì un varano di grandi dimensioni, dondolandosi e scodinzolando in modo scombinato. Era uno splendido rettile grigio con la pelle d’iguana, che ora si era immobilizzato contro la rete della bassa palizzata. Mi sentivo stanco, quindi lasciai che la comitiva seguisse la guida che si allontanava per mostrare altri esemplari e rimasi solo ad osservare il grande varano king kong. Fu allora che mi venne un'idea. A volte succede che il caldo e la stanchezza, sommate alla scarsità d'informazioni che si ricevono, inducano a fare cose strane. In realtà sono scuse sempre deboli, che non legittimano a combinare tutta una gamma di sciocchezze che vanno dalla semplice idiozia alla balordaggine senza confini. Percorsi i metri che mi separavano dal varano-ciclope e mi accovacciai a terra proprio di fronte a lui. Tra noi due, complici in una piccola avventura fatta di stupidità e di ferocia, solo una maglia di rete. Il corrimano in legno della transenna non era più alto di un metro. Era proprio una bestia enorme e squamosa, dal foro al centro del muso affilato ora usciva una lunga lingua vermiforme, biforcuta, da serpente. O da demonio! L’occhio della bestia era neutro, da sauro che aspetta non si sa che cosa. Passò un certo tempo, poi la mia visita fu interrotta dalla voce del guardiano che chiamava nella mia direzione. Il gruppo aveva terminato il breve giro ed era tornato alla radura. Salutai il varano immobile, mi alzai e raggiunsi il gruppo. Il guardiano mi spiegò che non mi era permesso avvicinarmi in quel modo agli animali, che la rete era un riparo solo per così dire simbolico. Aggiunse che le bestie non sono per niente tranquille quando non hanno mangiato. Il varano anoressico! Ricordo che l'indonesiano pronunciò anche quella frase ‘they can jump’, che mi svegliò del tutto dal mio torpore di turista tropicale con la camicia a fiori. Il guardiano disse anche che a lui e ai suoi colleghi guardiani non era permesso portare armi da fuoco. In caso di attacco alle persone, anche se turisti, la legge indonesiana proibiva a chiunque di ferire o uccidere i varani. Sono una specie protetta, aggiunse.

Emozioni balistiche

una proposta per le ferie natalizie: soggiorno a Punta Cana, Repubblica Dominicana, là dove le spiagge sono di corallo bianco e il mare è blu cobalto, più escursione e visita alla capitale, Santo Domingo. Qui da non perdere è una serata alla discoteca 'Guacara Taina', dove le emozioni possono addirittura diventare esplosive. La discoteca è situata nella zona ovest della città, è meglio non andarci prima delle 23:00, e non a stomaco vuoto per reggere meglio i cuba libres. Un ‘truquito’ che imparai a suo tempo era di andarci dopo avere mangiato una quantità di pane o pizza. All’ingresso della discoteca non lasciatevi suggestionare dal cartello che recita: ‘Se prohibe la entrada con armas de fuego’. Si tratta di una formalità e pochi ci badano, ora vi spiego come. La prima volta ci andai accompagnato da conoscenti dominicani, varcato l'ingresso mi dissero ‘vieni, ora scendiamo’. Scendere? La ‘Guacara Taina è una grotta sotterranea!, anzi tre grotte sovrapposte in posizione sfalsata nel sottosuolo. I pavimenti sono ricoperti da stalagmiti, dalle volte delle grotte pendono meravigliose stalattiti, pavimento, pareti e volte sono ricoperte da umidità naturale illuminata dalle luci stroboscopiche con tutti i colori dell'iride. Per il visitatore che vede la Guacara per la prima volta questa discoteca è uno schianto. In effetti questa è la più lussuosa discoteca di Santo Domingo, e forse una delle più originali al mondo. Quella mia prima serata fu da ricordare, perché verso la una del mattino, mentre ci trovavamo nella grotta intermedia, la più grande, e proprio mentre risuonavano le note dei ‘Cuatro y Cuarenta’ di Juan Luis Guerra, si udì una serie di detonazioni da sparo che provenivano dalla grotta più bassa. Non so dire come, ma tra le grida di signore impaurite e fuggi fuggi di tutti quanti, in un baleno la pista della disco rimase completamente vuota. Dov’erano finiti tutti? Nascosti dietro le stalagmiti? appiattati in qualche anfratto? Dal soffitto pendeva un grosso globo roteante di metallo scuro, irto degli aculei delle luci psichedeliche. Sembrava una mina della marina militare dominicana. Insieme al globo roteavano tutte le sue luci stroboscopiche, e a questo vortice di luci si incrociava lo sciame di puntini luminosi di un altro globo rotante, ricoperto da lustrini a specchio. Le note dei 4 y cuarenta intanto continuavano nitide e distinte come prima. La sala era vuota, e in quella strana solitudine piena di suoni e di luci che si muovevano come fantasmi ascoltai fino in fondo una delle più belle ‘salsas’ del momento. Talmente bella che riuscii a memorizzarne le parole:
‘Nos encontramos una tarde / bajo el sol de Primavera / Tú caminando entre mis pasos, yo vistiendome en tus huellas / Y nos amamos cara a cara / Y nos besamos en la calle / Y tanto amor se fué fundiendo / Que ahora no puedo olvidarte / Mil razones para amarte / tu eres mi razón primera...’

La valle dei monumenti

Quando la attraversai per la prima volta, alcuni anni fa, rimasi senza fiato di fronte allo spettacolo più grandioso al quale la natura mi avesse mai invitato. La valle dei monumenti è un oceano di terra sovrastato da un altro oceano di cielo. Su questa pianura rossa e scura pilastri enormi di roccia si elevano come per raggiungere il cielo, ma senza arrivarci perchè le loro sommità sono troncate. Come tante torri di babele incompiute e poi abbandonate da una umanità in fuga, queste formazioni gigantesche si susseguono una dopo l’altra in uno spazio che sembra non finire mai. La terra, la polvere della pianura, le torri di roccia e l’orizzonte, sono tutti del colore della terracotta, dell’ocra e del girasole. Se il sole è a picco nel cielo è un astro da incubo, se è al tramonto e basso sull'orizzonte è il tuorlo di un uovo rotto. Nella valle dei monumenti il grande diventa grandioso, le distanze si moltiplicano e le persone non devono sostare, ma solo transitare. (vi è piaciuto il mio volo pindarico? a me piacciono sia i voli pindarici sia tutto ciò che sa di barocco e dannunziano). Per visitare la valle dei monumenti occorre un automezzo robusto, meglio se a doppia trazione, e in perfette condizioni di meccanica. L’orientamento non è un problema, la strada è generalmente in buono stato, descrive vaste curve o si appunta in un rettilineo che finisce chissà dove. In qualunque punto il visitatore si trovi, i torrioni dei monumenti sono sempre visibili, come guardiani giganti che non perdono mai di vista l'intruso. Percorrevo dunque la valle lungo l’asse stradale che l’attraversa, ricordo che sulla mia destra, verso nord, c’era la processione funebre e immobile delle torri, sulla mia sinistra, verso sud, una falesia lontana. Sulla strada non c’era nessuno, sui bordi della pista nessuno, e nessuno si vedeva da qualsiasi parte girassi il collo. Ero solo nella valle, al volante del mio mezzo, l’unico rumore era il ronfare del motore. Ad un certo punto mi parve che la carica onirica di quel percorso andasse scemando, e decisi di fermarmi. Accostai al bordo della pista, spensi il motore, scesi dall'auto e mi guardai all'intorno con il ronzio della meccanica che continuava nell’udito. Non c’era anima viva. Dopo alcuni minuti vidi una macchia scura che si muoveva lontana sull'orizzonte a destra della pista. Lentamente la macchia si materializzò in figurine umane. Aguzzai la vista come incredulo. Erano tre esseri che si muovevano rapidamente verso di me. Passò un quarto d'ora, ecco che le tre persone erano più vicine, e allora vidi che avevano sandali grossolani, tuniche corte di colore indistinto, specie di bastoni o pertiche in mano, una portava il cappello a cono tipico delle popolazioni locali, tutti e tre avevano la pelle nerissima e lucida. Tunica corta, pelle nera, cappello a cono? Ah, non ho precisato che quella che percorrevo non era la valle dei monumenti degli Stati Uniti d'America, ma della Repubblica del Mali! (vi è piaciuto lo scherzetto?). Avevo accompagnato dall’Algeria 4 automezzi di turisti lungo la pista che attraversa il Sahara da nord a sud. Con partenza da Ghardaia, avevamo raggiunto El Golea e poi Adrar, qui avevamo infilato la difficile pista della Bidon V fino a Bordj-Moktar (Algeria), per arrivare dopo 3 giorni a Gao sul fiume Niger, in Mali. In questa località mi ero congedato dal gruppo che voleva andare per i fatti suoi ed avevo proseguito da solo attraverso il Mali, per poi attraversare il Burkina Faso, con destinazione finale Abidjan, Costa d’Avorio. A Gran Bassam, a est di Abidjan, mi attendeva una settimana di riposo sulle spiagge del Golfo di Guinea. Il problema ora erano quelle persone sbucate dal nulla della valle dei monumenti e che si avvicinavano spedite dritto su di me. Non era questione di avere paura, ma solo di scansare inconvenienti. Erano senz’altro viaggiatori solitari attirati dalla vista dell’automezzo fermo al bordo della pista, circondato da una solitudine assurda, forse volevano chiedermi dei biscotti, dell'acqua, qualche soldo. Oppure erano briganti che stavano per piombarmi addosso ed infilzarmi con qualche loro spiedo nascosto sotto le tuniche, e allora avremmo inaugurato una specie di corrida di nuovo genere in quell’arena immensa e senza spettatori. Mancavano poche decine di metri tra la mia auto e quella gente. Scattai in una serie di azioni rapide e meccaniche. Re-infilai l’asticciola metallica nel foro di livello dell’olio-chiusi di scatto il cofano-aggirai l’auto-raccolsi bidone dell'acqua-il binocolo-altri oggetti, etc. Ah, le qualità fuori del comune dell'uomo bianco in quelle situazioni! il suo superiore senso del tempismo, del coordinamento di causa ed effetto, la sua splendida capacità di reazione! I tre erano a pochi passi da me ma io stavo per involarmi da loro perché ero ormai l’auto era pronta a partire. Se anche erano predoni, io li avevo fregati. Mancava solo il portellone posteriore da chiudere ed eseguii l’operazione in un lampo. Mentre lo chiudevo con un colpo vigoroso, il mio pollice sinistro rimase imprigionato nel portello e questo si chiuse a pinza sul mio pollice con tutta la potenza dell'angolo formato tra il bordo e lo stipite che si chiudeva. Il dolore si scaricò attraverso il dito e saettò fino al cervello, la sofferenza mi fece piegare in due a bocca aperta e senza fiato. Il sangue doveva essersi ritirato dalla faccia e dalle mani e doveva essere rifluito altrove. Vidi che i tre erano su di me. Ero nei guai. Nella valle dei monumenti avevo commesso un errore monumentale. Poi vidi che i tre mi passavano accanto lentamente, osservando l’auto e me piegato in due con quella strana smorfia. Tutti e tre dissero ‘bonjour’, poi ripresero il loro passo normale e si allontanarono. Credo che rimasi una buona mezz’ora accovacciato a terra, con il dito in mano che assomigliava ad una dalia, in attesa che le ondate di dolore si calmassero. Poi, come uno scarafaggio, entrai nella cabina dell’auto, misi in moto e mi avviai lungo il rettilineo della pista, con destinazione Abidjan. Lungo il tragitto ripensai ai tre viandanti che mi avevano salutato. Erano tre uomini del popolo dei Dogon. Il nostro incontro aveva rallentato solo di qualche istante il loro cammino verso la lontana falesia in direzione sud che era la loro casa.

Le tribù bianche

..era il 24 dicembre di non ricordo quale anno, e mi trovavo su di un pulmino-navetta che dall’aeroporto di Kigali, Rwanda, trasportava i passeggeri verso il centro città. Era successo che all'aeroporto di partenza di Dar-es-Salaam, Tanzania, un'attendente della compagnia aveva comunicato ai signori passeggeri che, désolée, per motivi tecnici il volo non era più diretto per Bruxelles, ma che era previsto uno scalo con pernottamento in Kigali e partenza il giorno dopo. La compagnia era Sabena, e una volta l’annuncio terminato mi rammentai della freddura che circolava nell’ambiente e che suonava: Sabena, such-a-bloody-experience-never-again. Il pulmino-navetta trasportava tanzaniani, rwandesi, oltre a un gruppetto di turisti di campionatura europea assortita. C’erano un paio d’inglesi, parecchi tedeschi, dei belgi. Il bus entrò in un quartiere residenziale di Kigali, percorse un largo viale alberato ai cui fianchi si allineavano ville bianche con porticati in stile coloniale, schifiltosamente appartate nelle loro 'pelouses', prati d'erba chiara che parevano terreni da golf. Eravamo nel quartiere delle ambasciate, delle residenze dei bianchi e della momenklatura rwandese.
Come ho detto non ricordo l’anno di quel Natale, ma so che precedeva di forse sei o sette la tragedia del grande, finale, pauroso genocidio etnico tra hutu e tutsi del 1994.
Il pulmino si arrestò al porticato d'ingresso di un hotel 5 stelle convenzionato con la Sabena, scaricò i turisti e ripartì. Sparimmo tutti nelle nostre stanze per doccia e riposino, poi a sera il gruppetto di turisti europei si ritrovò a cena nel ristorante al piano terra. Il menu proponeva squisiti piatti della cucina belga. Al termine della cena il dessert non fu dolce. Cominciarono i primi mugugni, i dubbi sui motivi tecnici dello scalo imprevisto, e poi a Kigali!, la vigilia di Natale in viaggio, etc. Dopo le lamentele ci fu un po’ di small talk, e finito anche quello si cominciò a parlare degli africani, dell’anomalia della divisione delle società africane in etnie che invariabilmente si odiano, dell’odio fra Hutu e Tutsi. Devo ricordare che il grande genocidio tra Hutu e Tutsi del 1994 non fu l’unico ad accadere in Rwanda, fu solo il più catastrofico. La mattanza del '94 fu preceduta da decenni di numerosi, periodici guai etnici. Dal giorno della sua indipendenza nel 1962, Rwanda e Burundi hanno conosciuto ben pochi periodi di pace. In quella sala da pranzo dell’hotel Sabena, alla vigilia di Natale, pensai alla stranezza che induceva i bianchi europei a parlare degli africani sempre e solo come riempitivo dei vuoti di una conversazione. Sembra proprio che gli africani e le loro bizzarrie debbano fare da ruota di scorta e da capro espiatorio per tutti i vuoti di memoria o d’ingegno dei bianchi. Le deprecazioni per il male delle etnie che affliggono l’Africa continuarono per un certo tempo. Aveva già smesso di ascoltare i commenti dei nostro gruppo di turisti tropicali e avevo cominciato ad osservare la tavolata all’altro lato della sala. Qui stava finendo di cenare l’equipaggio del nostro aereo, c’erano signori ancora in divisa, tra cui il capitano, gli attendenti, forse un paio di meccanici. Fui sorpreso al vedere quanta gente ci vuole per far volare un aereo. Tutti parlavano in fiammingo ed io non capivo nulla della loro conversazione. Ad un certo punto dal gruppo dell'equipaggio il volume delle voci aumentò, ci fu uno strepito di esclamazioni, un parapiglia di imprecazioni. Era scoppiata una lite! Tutte le facce della sala si voltarono come girasoli verso quella tavola, cucchiaini da dessert restarono a mezz’aria, bocche rimasero spalancate. Era una lite tremenda, piena di livore e di rancore, si era spalancato un verminaio! Capii che il diverbio si era acceso tra il personale Sabena e quello dell’hotel, ora vedevo che un paio di inservienti in piedi dietro la tavolata, vociavano piegati in due, con il collo torto, all’indirizzo dei commensali. Le parole erano diventate coltelli, forchette, trinciapolli, schiaccianoci, tritacarne, armi improprie da cucina. Credetti di capire che l’equipaggio era fiammingo, il personale d’hotel vallone. All'inizio tutti vociavano in fiammingo, poi si passò al francese: ‘hargneux! vous nous vexez! je veux récupérer mon argent!'. Era una lite per una questione di soldi, il rancore era grande, i toni così furibondi che pensai che stessero per venire alle mani. Nessun problema, solo che la sala da pranzo di un hotel di categoria non era il ring adatto. Che vergogna. Poi la lite finì com’era cominciata. Con un sorrisino imbarazzato noi turisti ci alzammo da tavola e salimmo nelle camere. Un’ora dopo ero disteso sul letto e guardavo il soffitto della stanza. Era il 24 dicembre di un anno che non ricordo, gli ammazzamenti fra hutu e tutsi erano già scritti nel futuro, e le due tribù bianche a sud e a nord di Bruxelles quella sera non erano state un buon modello di convivenza. Queste erano le tribù che fino al 1960 tenevano sotto il tallone l’intero bacino del Congo, compresi i territori degli attuali Rwanda e Burundi. Decenni erano trascorsi, ed ora Kigali era una città in cui Hutu e Tutsii vivevano gomito a gomito in una commistione così stretta da rendere un reciproco massacro tecnicamente difficoltoso. Kigali era diventata una città aperta.

Sonorità mistiche

un breve anneddoto di un viaggio in Kerala, India. Nei pressi della cittadina di Kottakal mi trovavo ad osservare un magnifico tempietto Hindu, quando notai che una piccola processione di fedeli si apprestava ad entrare nel luogo sacro per celebrarvi un ‘puja’, o cerimonia religiosa. Chiesi all’anziano Sadhu, che stava a guardia dell’ingresso del tempietto, il permesso di partecipare alla puja. Il guardiano, che aveva addosso come unico indumento un 'dhoti' intorno ai lombi e aveva disegnato sulla fronte un simbolo a U tracciato con cenere, mi diede il suo consenso con il tipico sbattimento laterale della testa che significa ‘fa pure’. Tolte le scarpe, percorsi tre volte la circonferenza dell’edificio sacro in senso orario,
entrai nel tempio e nel vestibolo sostai davanti alla donna in sari che officiava il rito. Le mani della donna tenevano stretta una ciotola di acquasanta, in quell’acqua io immersi le mani e mi bagnai il viso e la nuca. Poi l’officiante prese con le dita un pizzico di polvere rossa contenuta da
un’altra ciotola e con pollice e indice toccò la mia fronte. Ero pronto per la puja. Lasciai un’offerta ed entrai all'interno del tempio. La sala interna era un ambiente stranamente spoglio, a pianta quadrata. Soltanto nella
parte superiore delle pareti erano stati incastonati loculi quadrati, di circa mezzo metro di lato. La serie di loculi proseguiva lungo tutto il perimetro delle pareti e al loro interno, protette da una vetrinetta, erano racchiuse statuette e altorilievi in gesso dipinto che rappresentavano varie divinità. Il centro della stanza era occupato da un grande altare in pietra, adornato
questo con una dovizia di sculture e d’immagini sacre, irto di bastoncini d’incenso accesi. Sulla sommità dell’altare centrale sedeva la divinità principale del tempio, il dio-elefante Ganesh, mezzo avvolto dal fumo d’incenso. A volte si producono situazioni in cui la mente abbandona
le sue difese e diventa vulnerabile, lo scetticismo più inossidabile comincia a scrostarsi e le miscredenze più coriacee a cedere. Ovviamente si tratta solo di sensazioni illusorie, la colpa è del fumo d'incenso che inebria, della stranezza delle immagini, o del significato indecifrabile dei simboli
sacri. Tuttavia in quel momento mi domandai se fra tutte le divinità del pantheon Hindu ce ne fosse almeno una in grado di rispondere ad un paio di mie domande senza tempo sul senso delle cose del mondo e della vita, oltre al senso di quell'altra vita che invece, con una buona dose di narcisismo, si vorrebbe vivere in eterno. Mi sentivo mistico. Improvvisamente dietro di me risuonò una serie di note melodiose, a tutto volume. La suoneria di un telefono cellulare! Alle mie spalle un tale aveva estratto da una tasca un telefonino con lo schermo illuminato nell'oscurità
del tempio e aveva cominciato una conversazione a bassa voce, mentre si dirigeva verso l'uscita del luogo sacro. Io mi sentii mortificato. Le espressioni degli dei in effige si erano rinchiuse in se stesse, offese dalla suoneria del cellulare idiota, ed io mi sentivo offeso insieme a loro.
Gli dei forse stavano per dirmi qualcosa, ma quel tale con il telefonino aveva rovinato tutto. Uscii dal tempio e sostai all’aria aperta nel giardinetto attiguo all’edificio sacro. All’improvviso l’aria vibrò di nuovo, questa volta di
una sonorità cupa e potente, un rumore inspiegabile che veniva dall’altra parte della siepe che circondava il tempio. Nel giardino c’erano altri fedeli, a questi domandai che diavolo (sic) c’era dall’altra parte del tempio, ma
nessuno sapeva, nessuno ci badava. Sembrava un cinema all’aperto, per di più con l’audio che funzionava male! Ero deciso a scoprire la verità, così mi aprii un varco nella siepe folta e sbirciai dall’altra parte. Era il giardino di
una casa privata, all’aperto era stato sistemato un mega-televisore, il volume era regolato al massimo, ma l'altoparlante era difettoso. Doveva essere la proiezione di qualche pellicola di Bollywood. Mentre mi allontanavo dal tempio ricordai di avere letto da qualche parte che il Kerala, pur essendo una regione ricca di meraviglie culturali, era purtroppo la località più rumorosa del'India.

La clinica dei matti

La clinica dei matti
Nella cittadina di Kottakal, in Kerala, India, ha sede una prestigiosa clinica ayurvedica, la ‘Arya Vaidya Shala’. Era il mese di dicembre di alcuni anni fa ed io avevo deciso di rifarmi la salute con un soggiorno di quattro settimane (4!!) in questa clinica. Accettavo come un segno del destino, o meglio del karma, di passare anche quell’anno il Natale lontano da casa. Il campus della clinica occupa una vasta area alla periferia meridionale di Kottakal, ha un giardino interno e i vari fabbricati sono circondati da uno spesso e alto muro di cinta, un po’ come quello del carcere di San Vittore a Milano. In quella clinica con l’Ayurveda non si scherza, chi ha cominciato a curarsi deve andare fino in fondo. Forse quel muro alto l’avevano messo lì per aiutare psicologicamente i pazienti a perseverare nelle cure. Quando varcai il cancello della clinica guardai il muro di cinta, pensai alle mie 4 settimane già prenotate ed il cuore mi si affondò nel petto. Mi dissi che accettando l’idea del peggio già all'inizio, qualunque cosa fosse successa in seguito sarebbe stata più sopportabile. Non potevo sapere di essere all'inizio di una permanenza a dir poco farsesca e divertente. L'edificio della clinica è su 4 piani, con il piano più alto interamente occupato da un padiglione per le sedute di yoga. Mi fu assegnata una camera al terzo piano, con bagno, lettino tipo branda, balcone sul giardino e televisore a colori. All’ingresso della stanza la parete era percorsa da una mensola larga e molto lunga. A che cosa doveva servire? Sulla parete erano appesi i quadri dei padri fondatori della clinica, una immagine di Shiva, una grande tabella con un lungo elenco di regolamenti e prescrizioni salutari, corporali e spirituali ad uso dei pazienti. Già il primo giorno ricevetti la visita in camera del primario e dei suoi assistenti. Cercai di spiegare che il mio problema non erano solo i dolori cervicali, ma tutta una serie di molestie come bulimia, ronzii alle orecchie, etc. L’équipe medica si consultò più con gli occhi che con le parole, poi si congedò. Dopo un paio d’ore un infermiere mi portò una decina di boccette, vasi, ciotole contenenti liquidi dai colori più vari, enormi compresse alle erbe, tavolette di sostanze colorate e molli come cera pongo. L’infermiere dispose il tutto sulla mensola e mi disse che nel pomeriggio mi avrebbe portato il resto. Il resto? Ecco a che serviva il mensolone! Sotto ogni prodotto l’infermiere aveva infilato un foglietto con l’indicazione degli orari di assunzione e le dosi. Esaminando il liquido giallo di un flacone ricordai di avere letto sul quotidiano ‘The Hindu’ che l’ex premier Desai del Janata Party, il partito Hindu di estrema destra conservatrice, quando ancora era ottuagenario beveva ogni giorno un bicchiere di orina di mucca. Mi feci un appunto mentale per chiedere al primario da dove veniva il colore giallo di una mia medicina. La mia giornata era regolata nel modo seguente. Al mattino sveglia di buon'ora, camminata rapida in giardino per inalare il prana, colazione alla mensa del pianterreno, a metà mattina massaggio ayurvedico, pranzo, pomeriggio libero, alle 18:00 seduta di yoga terapeutico nel padiglione-terrazza sopra il quarto piano. La dieta era rigorosamente vegetariana, le prescrizioni morali impartite dalla direzione prevedevano l’astensione dal linguaggio licenzioso, la correttezza morale, la pulizia di fuori e di dentro. Feci ben presto conoscenza con gli altri pazienti della clinica. C’era una signora inglese, una dottoressa, che si diceva afflitta da una serie di allergie a sostanze varie, cibi, colori, odori. Un’altra signora bionda platinata, non più giovane, esuberante, si presentò dicendo di essere italiana, di Trieste, attaccò a parlare di Sonia Gandhi, disse che nella clinica in una settimana era diventata oh, così popolare essendo italiana, perché a molti indiani

piacciono Sonia Gandhi e quindi gli italiani. L’italiano però lo parlava con la buccia e ad un certo punto mi presentai anch’io come italiano e le chiesi da quanto tempo aveva lasciato la Bulgaria. La signora bionda, Lily era il suo nome, fu sorpresa che avessi riconosciuto il suo accento bulgaro. Le spiegai che di mestiere un tempo facevo il linguaiolo/traduttore, che avevo l’orecchio fine e che in più conoscevo i Balcani. Le appioppai il nomignolo di ‘Lily-Fior di Loto’. Scoprii più tardi che Fior di Loto non aveva nessuna malattia, era lì perché le piaceva l’ambiente. La dottoressa inglese invece era davvero malata, soffriva di crisi psicologiche con cambi di umore repentini e lunatici. Non si stancava di enunciare la lista delle sue allergie, ogni volta aggiungendone una. Mi ricordava Emily Dickinson, che visse per anni
rinchiusa in casa, vestendosi solo di bianco. La dottoressa non si comportava bene con me, un giorno bussò con forza alla mia porta, entrò senza salutare, si sedette davanti al mio televisore e lo accese. Mi spiegò che nella sua stanza non c'era tivù. Dopo un po' tirò su le gambe e poggiò i piedi sulla mensola del televisore, sporcandola con le sue scarpe. Dopo un altro po’ mi chiese se poteva usare il mio bagno, senza attendere la mia risposta prese la porta del bagno e vi restò rinchiusa a lungo. Quando uscì le chiesi se il suo bagno (la sua stanza era al secondo piano) era rotto o qualcosa del genere. Decisi che la dottoressa era un po’ suonata e lasciai perdere. I giorni passavano, il primario mi aveva spiegato che le sue medicine non contenevano orina di mucca. Quando gli chiesi se poteva fare qualcosa di specifico per il mio ronzio alle orecchie rispose 'senz’altro'. Quello stesso pomeriggio un infermiere mi portò in camera una specie di shisha egiziano da cui usciva un lungo tubo di gomma che terminava in un beccuccio sottile. Alla base di quella cosa c’era un focolare che conteneva braci ardenti e tavolette di sostanze alle erbe. L’infermiere mi spiegò che dovevo infilare il beccuccio del tubo nell’orecchio che ronzava e azionare delicatamente una specie di soffietto. Il fumo doveva entrarmi nell’orecchio! Gli chiesi da dove sarebbe uscito il fumo entratomi nell’orecchio, ma l’impiegato non seppe darmi un risposta precisa. Un giorno alla reception della clinica si presentò un nuova paziente, una ragazzotta non tanto bella che disse anche lei di essere italiana. Anche lei parlava l’italiano con la buccia (toh!) e di primo acchito non riuscii a capire da quale paese venisse in realtà. Ma poi lo capii e le dissi ‘tu sei albanese’. Anche la ragazza rimase sopresa come lo era stata Fior di Loto e ancora una volta dovetti spiegare che conoscevo i Balcani (sbadiglio), che ero un fine conoscitore di accenti e di dizioni, etc. La
signora albanese aveva una stanza al primo piano, non partecipava mai alle sedute di yoga, non veniva mai in mensa e si faceva portare il pasti in camera. Ogni volta che casualmente passavo al primo piano notavo che la sua porta era sempre spalancata. Che strano. Al terzo piano, proprio di fronte alla mia porta, soggiornava una giovane signora svizzera, smunta e taciturna. Gli altri pazienti mormoravano che la signora svizzera faceva solo dei clisteri, nient’altro che clisteri. Altri giorni passarono, le sedute di
‘therapy yoga’ avevano un benefico effetto, le sedute di massaggi ayurvedici e di versamenti di olio sul capo, etc, un po’ meno. Una sera, passando davanti alla porta spalancata dell’italo-albanese, questa mi vide e mi invitò ad entrare. Appena fui entrato la ragazza si alzò e chiuse la porta di scatto. L’intermezzo che seguì lo voglio saltare a piedi pari perché non vale la pena riportarlo. Con tutto il rispetto e senza volgarità devo però dire ciò che appresi. La ragazza era in quella clinica solo per rimorchiare (uomini).
Dopo avere capito la sua disponibilità, pensai a due cose. La prima era che copulare in una clinica dove in ogni stanza stava affisso ben chiaro il codice morale da seguire, bene, non era di buon gusto. In secondo luogo per me fu decisivo constatare che la ragazza aveva un aspetto decisamente disadorno.
Le dissi che ero malato, che avevo dolori dappertutto. Le parlai di Sonia Gandhi, dell’orgoglio di essere suoi connazionali. A parte mi misi a riflettere che, a quanto pare, se c’era un posto al mondo dove valeva la pena di essere italiani, questo era proprio Kottakal, Kerala, India. Altri giorni passarono, anche il giorno di Natale passò. Il pomeriggio successivo alla nostra festività mi trovavo nella mia stanza scrivendo al portatile e gettando ogni tanto un'occhiata al televisore acceso con volume a zero. Notai che una emittente trasmetteva immagini di costiere, di barche di pescatori spiaggiate, di mareggiate insolitamente forti. Da dove veniva quella burrasca? Il tempo era splendido e soleggiato...Dopo un paio d’ore vidi che la stessa emittente continuava a trasmettere sequenze con riprese di spiagge, barche, onde da tempesta. Che strano. In quel momento qualcuno bussò furiosamente alla mia porta, all’aprire si precipitò all’interno la dottoressa mattoide, che si diresse al mio televisore e vi si piantò davanti. Dopo un po’ le chiesi se le piaceva il mare. Si voltò di scatto e gridò: ‘Ma non sai ancora nulla?! Sumatra! Terremoto! Catastrofe!’ Era il 26 dicembre 2004 e dal suo epicentro al largo di Sumatra una gigantestca onda anomala aveva
devastato l’Indonesia del sud-ovest, l’archipelago delle Andamane e si era abbattuto sulle coste dell’India orientale. Ora l’ondata ciclopica aveva fatto il giro del Deccan e aveva raggiunto anche le coste del Kerala. Era la muraglia semovente e liquida di un grande, spaventoso tsunami!

I vitelloni del Cairo

Parecchi anni fa, la prima volta che vidi la piramide di Cheope sulla spianata di Gizeh, rimasi incredulo con il naso in aria per un minuto buono. Per la mezz'ora successiva poi non feci che ripetermi le tre parole ‘non è possibile’, come un pappagallo al quale s’insegna a parlare. Non era possibile che esseri umani avessero mai prodotto un simile manufatto! Di fronte all’immane accumulo di blocchi rimanevo sbalordito come doveva essere la scimmia di Stanley Kubrik di fronte all'obelisco nero e lucido venuto dal futuro. Anni dopo, una mattina di buon’ora di un giorno di novembre, mi preparavo per la seconda volta a salire il pendio che dal centro abitato e dalle mura del grande perimetro di Gizeh porta fino alla base della piramide. Non ero entrato dal cancello turistico principale ma da un ingresso secondario non sorvegliato a circa duecento metri alla sua sinistra. Come mai questa scelta? E perché mi trovavo in quel luogo di mattina presto, due buone ore prima che la fiumana dei turisti cominciasse a sciamare dall'ingresso principale? Alcuni giorni prima ero stato invitato da Emad, mio conoscente e piccolo notabile del quartiere di Gizeh, a trascorrere un paio di giorni nella sua residenza. Dopo il mio secondo pernottamento tuttavia Emad disse che avrei dovuto traslocare perché lui doveva badare a sua madre (?!). Avrei alloggiato nella casa di un suo conoscente, una palazzina a 20 metri dal muro del perimetro delle piramidi, e a non più di 50 dall'ingresso principale che conduceva alla sfinge. L’amico di Emad seguiva le abitudini degli uomini delle classi bene del Cairo, cioè dormiva di giorno e viveva di notte. Quel mattino l’amico mi mostrò la mia camera, un ambiente polveroso e ingombro fino all’inverosimile di mobili, tappeti e cianfrusaglie. L’ultima volta che vi avevano fatto le pulizia doveva essere stato al tempo delle dinastie dei Tolomei! Per salire fino alla base della piramide l’amico mi consigliò di prendere l'ingresso secondario di servizio. Se qualcuno mi avesse fermato, avrei solo dovuto fare il suo nome. Poi si mise a letto e poco dopo cominciò a russare. Dalle finestre vedevo le piramidi e la sfinge. Uscii in strada, cercai e trovai l’ingresso indicato e cominciai a salire verso la grande piramide di Cheope. A metà ascensione udii una voce che mi chiamava dal basso. Una figura vestita del solito jellabah grigio laggiù gesticolava nella mia direzione e chiamava. Mi fermai disorientato. Di certo un funzionario si era accorto della mia infrazione ed ora stava salendo per sgridarmi o multarmi. Poi capii che doveva essere una guida improvvisata che aveva notato il turista solitario e voleva scortarlo. Ebbi un momento d’irritazione. Anche partendo all’alba non si riusciva a sfuggire al marketing selvaggio delle guide informali. Continuai a salire sperando che il seccatore se ne andasse. Ero deciso a stare in compagnia di Cheope a due, senza intermediari culturali. Salivo in fretta, ma la persona laggiù faceva altrettando, chiamando senza sosta. Un paio di volte mi girai verso il basso gridando 'no, no!', non volevo guide! Niente da fare. Attendere che mi raggiungesse, per poi spiegargli garbatamente che proprio volevo restarmene solo non sarebbe servito. Ero furioso. Poi mi venne un’idea. Mi arrestai rivolto verso la piramide, lentamente alzai le braccia al cielo, tenendole ben distese verso l'alto. Così facendo mi girai altrettanto lentamente verso il pendio in basso, là dove l'importuno in jellabah grigio vociava e gesticolava salendo verso di me. Mi piantai a gambe larghe, le braccia al cielo, il capo sollevato verso l’alto. In quella posizione mi
immobilizzai. Ero diventato un gran sacerdote del faraone, un fanatico officiante di qualche setta, oppure semplicemente un maniaco squilibrato. La voce là in basso si spense, non si udiva nemmeno calpestio o rotolio di ciottoli. Abbassai le braccia molto lentamente e guardai verso il basso. La mia 'guida' stava già tornando sui suoi passi, scendendo in fretta come era salita. Doveva aver pensato che non valeva la pena fare da balia a quello strano turista. Ripresi a salire, arrivai alla base della grande piramide e passai le tre ore successive a contemplare quell'incredibile accumulo di blocchi. Ricordai che Flaubert, quando visitò per la prima volta la piramide, quasi a esorcizzare lo sgomento del soprannaturale che gli'incuteva quella visione, si limitò a definire l'opera 'una montagna di pietre'. Una sera visitai l’amico/habibi Emad nella sua casa di Gizeh. Emad aveva dormito tutto il giorno ed era in procinto di alzarsi dal letto per l’ora di cena, che per lui era una colazione. Emad era molto grasso. Guardandolo ancora riverso sul suo letto mi parve di vedere un ippopotamo atterrato da una fucilata in una partita di caccia grossa. Poi la percezione cambiò e quando si alzò da letto era la luna piena che sorgeva. Insieme ad altri notabili e compagni di farniente di Gizeh, ci sedemmo a terra su tappeti e su cuscini della sala da pranzo, la madre e la sorella di Emad fecero la loro comparsa con vassoi colmi di carni alla griglia, fette di pane, tagine, grandi foglie di lattuga, pomodori, fuul, ossia faglioli lessati per ore in un recipiente a forma di pallone. Le donne depositarono i vassoi su di un tavolino lungo e basso al
centro dei tappeti e se ne andarono. Era una cena per soli uomini. C’era un solo bicchiere per otto persone, ma così voleva la tradizione. Al termine della cena cinque persone si congedarono e rimanemmo in tre, Emad, l’habibi che mi ospitava a Gizeh ed io. Quando uscimmo di casa era già buio.
A qualunque ora del giorno e della notte, in qualsiasi stagione dell’anno, sul Cairo grava una bruma fatta di pulviscolo e di fine sabbia del deserto in sospensione. Di giorno il pulviscolo è di colore giallo dorato, di notte diventa un'aurora boreale e assume la tinta di una fuliggine che su tutto si posa e tutto imbratta. Camminavamo per le strade polverose e scarsamente illuminate di Gizeh, l’escursione termica di novembre aveva sostituito il tepore del giorno con un’aria fredda e sporca. Emad non aveva saputo
chiarirmi quale fosse la meta di quella escursione notturna. Arrivammo in un luogo illuminato, da cui proveniva un brusio di voci. Era uno spiazzo aperto tra palazzine scure sul quale era stato eretto un grande padiglione con tende colorate. Entrammo, Emad salutò i presenti ed io mi guardai intorno. L’ambiente era illuminato a giorno con numerose lampade, sui tre lati della tenda-padiglione sedevano anziani in jellabah bianchi candidi e giacche europee scure indossate sopra la tunica. Alcuni fumavano shisha, altri sorseggiavano the da bicchierini, tutti sembravano in attesa di qualcosa. All’improvviso da un altro settore del padiglione un altoparlante inondò l’ambiente con i suoni discordanti di una musica sacra, allo strepito si unirono delle voci in coro, poi alcuni figuranti cominciarono una strana danza rituale da dervisci. I loro corpi cominciarono a dondolare, poi ad avvitarsi su se stessi e a roteare. Nelle mani dei danzatori comparvero delle fruste, che nell'avvitamento dei corpi atterravano sulle loro schiene. La danza sacra era la pantomima di una flagellazione, sull’esempio delle processioni penitenziali sciite. Gli ambienti dei padiglioni erano inondati da una profusione di luce, quasi si volesse scongiurare l’oscurità e la caligine che all’esterno incombeva sui falansteri cupi e sulle oscure periferie del Cairo. Ad un certo momento desiderai di essere altrove, sognai di starmene disteso in un hammam a 35 gradi di calore e di farmi massaggiare con una spugna ruvida. Se solo avessi potuto individuare l'hammam dove gli esploratori vittoriani Richard Francis Burton e John Hanning Speke si erano recati durante il loro soggiorno al Cairo! I due stavano per cominciare il viaggio di scoperta delle sorgenti del Nilo. In seguito Speke sostenne di averle individuate nel lago Nyanza/Vittoria, mentre Burton negò il fatto. Poi Speke sarebbe rientrato a Londra per presentarsi alla Royal Geographic Society presieduta da Lord Murchison, Burton sarebbe rimasto a godere degli agi e degli ozi sibaritici del Cairo. Uscimmo dal padiglione, Emad fermò un taxi, la nostra spedizione notturna presa un'altra piega. Emad
disse 'adesso ti mostro qualcosa di diverso’. Il taxi percorse strade immerse nell’oscurità, poi improvvisamente lo scenario cambiò. Il taxi ci aveva depositati ad una grande avenida illuminata, percorsa da file di automobili, dai marciapiedi pieni di gente. Non ricordo il nome di questi Champs
Elisées cairoti, ma ricordo la folla rumorosa, le vetrine sfavillanti dei negozi e dei caffè, la fiumana di luce che inondava tutto e tutti, e sembrava voler allontanare la caligine scura che avvolgeva il Cairo. Emad aveva voluto mostrarmi la faccia laica della città, quella che ricordava la capitale degli anni ’50, la città di Naguib Mahfouz e delle sue storie, la città che produceva film come avrebbe fatto in seguito Cinecittà. Roma! Ecco che cosa mi ricordava quel grande viale! Era la via Veneto romana inquadrata nella ‘Dolce Vita’! Nella sequenza surreale di quel viale che voleva illuminarsi a giorno, quale era il ruolo di Emad, del compare e di me stesso, tre perdigiorno svagati, nullafacenti e senza una meta fissa? Se mai un ruolo
avevamo, questo non poteva essere della 'Dolce vita', ma dei 'Vitelloni'!